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Il brutale e ingiusto conto della Storia

di Javier Valenzuela (El País 14/09/2012). Traduzione di Claudia Avolio.

La Storia è crudelmente inopportuna: è solita presentare il conto nel momento peggiore. Ingiusto è, di certo, che gli Stati Uniti di Obama – lo stesso che nel discorso del Cairo ha proposto una riconciliazione col mondo arabo e musulmano, ha appoggiato la Primavera Araba con a dir poco più convinzione dell’Unione Europea, e ha espresso la volontà di cooperare coi governi islamisti presunti moderati frutto delle elezioni democratiche in Tunisia ed Egitto – si trovino ora a pagare un tale prezzo. È il prezzo di tanti anni di disprezzo imperiale verso i popoli del Nord Africa e Vicino Oriente, di tanti anni di denigrazione intellettuale della arabicità e dell’islam, di tanti anni di appoggio dato a regimi autocratici come quello di Ben Ali e Mubarak, di tanti anni di sostegno ad Israele qualunque cosa faccia.

Che nessuno si lasci trarre in inganno: il risentimento verso gli Stati Uniti nel mondo arabo e musulmano è assai profondo, ed è andato enormemente approfondendosi negli anni di George W. Bush. L’invasione dell’Iraq, le barbarie di Abu Ghraib e Guantanamo, e un modo brutale di combattere il jihadismo che – tralaltro – si appoggiava alle autocrazie arabe, alle quali si subappaltava la detenzione e la tortura dei sospettati. Anche in Tunisia, la nazione più aperta, tollerante, liberale (nel buon vecchio senso della parola) del Maghreb? Beh sì, anche in Tunisia. I suoi abitanti – laici, pii e pacifici musulmani o militanti dell’integralismo – non hanno dimenticato che Ben Ali era citato come esempio di governante arabo da parte di Washington e delle istituzioni finanziarie che ospita, come il FMI e la Banca Mondiale.

Detto questo, è evidente che gli Stati Uniti non sono responsabili dell’obbrobrio cinematografico che denigra Maometto, caricato non si sa bene da chi su Internet. E le reazioni delle folle salafite infiammate cui stiamo assistendo in questi giorni in Egitto, Libia, Yemen, Sudan e Tunisia gettano solo cattiva luce sui loro protagonisti, ne confermano il carattere deviato in ambito ideologico, totalitario in senso politico e violento nei metodi. Il salafismo, questa interpretazione dell’islam primaria, fondamentalista e di esclusione irrigata negli ultimi lustri dai petroldollari dell’Arabia Saudita – un alleato degli Stati Uniti, da dovunque la si guardi – è, tristemente, un tumore in espansione.

Le sue vittime ora sono le sedi diplomatiche ed il personale degli Stati Uniti, in flagrante violazione delle convenzioni internazionali per nulla prese in considerazione. Ma vittime del salafismo, negli ultimi mesi, lo sono stati anche molti uomini e donne arabi per fatti come l’esposizione di quadri o messa in onda di serie tv considerate “blasfeme”; per non aver indossato alcun hijab nelle strade; per essersi opposti al fatto che gli Stati democratici sorti dalla Primavera Araba siano confessionalmente integralisti. Fino ad arrivare ai pacifici sufi, musulmani difensori di una bella via mistica nel praticare la religione del Corano, che si ritrovano ad essere ferocemente perseguitati dai salafiti nel Nord Africa. E a Timbuctù, caduta ora in mano a questi pazzi di Dio, espressioni centenarie della pietà popolare musulmana sono dilaniate dagli iconoclasti.

I democratici tunisini ed i loro amici all’estero da mesi denunciavano il fatto che i salafiti stessero imponendo nel Paese dei gelsomini la propria prepotenza – esposizioni saltate, film e serie tv perseguitate, donne vessate… E tutto questo davanti alla passività del governo degli islamisti presunti moderati di Ennahda, vincitori delle libere elezioni legislative del 2011, seguite al rovesciamento di Ben Ali. Perfino gli hotel che servono alcolici solo all’interno sono stati vessati da queste folle, in un Paese la cui principale risorsa economica è l’oggi scarso turismo straniero. A quest’ultimo i salafiti in Tunisia ed Egitto rispondono con un’alzata di spalle: propongono un turismo “halal” per la clientela dei Paesi del Golfo.

Ora, con i brutali assalti in Tunisia alle rappresentazioni diplomatiche e altri centri civili vincolati agli Stati Uniti, il mondo sa che quelle denunce non erano paranoiche, che il salafismo si sta appropriando della libertà recentemente conquistata per imporsi in modo tale e quale in cui lo fecero i nazisti nella Repubblica di Weimar, anche a suon di pugni se necessario. Nel frattempo, gli Stati Uniti di Obama pagano un pesante conto storico. Forse il maggior simbolo di una tale ingiustizia è la violenta morte, lo scorso martedì, di Chris Stevens nell’assalto armato al consolato di Bengasi. L’ambasciatore nordamericano in Libia, designato personalmente dall’attuale presidente nordamericano, parlava arabo, amava gli arabi. Conosceva e rispettava i loro usi e costumi, e appoggiava combattivamente questo desiderio di libertà e dignità che esprimono dall’anno scorso milioni di loro. Ai suoi assassini non è importato un accidente.