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La Turchia si rende finalmente conto della minaccia di Daesh

Turchia Istanbul Daesh

Di Mustafa Akyol. Al-Jazeera (13/01/2016). Traduzione e sintesi di Cristina Gulfi.

Il 12 gennaio, in una soleggiata giornata d’inverno, Istanbul è stata colpita nel suo luogo più turistico: un attentatore suicida si è fatto esplodere di fronte alla Moschea Blu, proprio affianco all’obelisco egizio. Le vittime dirette sono turisti stranieri – dieci in tutto, di cui nove provenienti dalla Germania. Ma ad essere colpiti sono anche il senso di sicurezza in Turchia, la pace sociale e l’industria del turismo.

All’inizio il colpevole non era chiaro, in quanto i sospetti includevano non solo Daesh (ISIS), ma anche i militanti curdi affiliati del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Dopo un paio d’ore il governo turco ha annunciato che l’attentatore era un combattente di Daesh, un cittadino siriano nato in Arabia Saudita. Il 28enne Nabil Fadli era entrato in Turchia dalla Siria di recente.

La domanda allora è: perché Daesh ha colpito la Turchia dritto al cuore di Istanbul? I militanti di Daesh hanno compiuto altri due attentati suicidi nel Paese negli ultimi sei mesi – uno a Suruç il 20 luglio e l’altro ad Ankara il 10 ottobre, uccidendo in tutto 135 persone. Questi attacchi, tuttavia, avevano uno specifico obiettivo ideologico: la linea politica laica, di sinistra e filocurda. In questo senso, possono essere visti come lo sconfinamento della guerra tra Daesh e i curdi o della guerra civile siriana in territorio turco. 

L’ultimo attentato è diverso. Ha avuto come obiettivo turisti a caso, un luogo simbolo di Istanbul, in sostanza la Turchia stessa. Ma ciò non dovrebbe essere una sorpresa, dal momento che il conflitto tra la Turchia e Daesh si è inasprito dal luglio scorso, in seguito all’attentato di Suruç e all’accordo che permette agli Stati Uniti di utilizzare la base aerea turca di Incirlik contro Daesh.

Subito le pubblicazioni di Daesh hanno aumentato la retorica contro Ankara, condannandola come uno dei tanti “regimi apostati” alleato dei “crociati”. Un articolo apparso su Konstantiniyye, mensile online di Daesh in lingua turca, prometteva “la conquista di Istanbul”.

Inoltre, alcuni giorni prima dell’ultimo attentato, le forze turche stanziate vicino Mosul sono state attaccate da combattenti di Daesh. Nel frattempo, lo scorso anno le autorità turche hanno arrestato circa 1200 persone per sospetti legami con Daesh. Tutto ciò indica che la Turchia è in guerra aperta contro Daesh, smentendo così le voci di una collaborazione segreta.

Si può invece ritenere che il governo turco si è reso conto della minaccia rappresentata da Daesh con ritardo e solo in modo graduale. Una ragione è la lunga ossessione per il regime di Assad come unico male in Siria. Un’altra sta nel fatto che la Turchia ha visto in Daesh, almeno per un attimo, un contrappeso alla rinascita curda nel nord della Siria. Una terza consiste nell’ideologia islamo-nazionalista del partito al governo.

In conclusione, date le serie minacce provenienti da Daesh e dal PKK, unite ad altri problemi come la guerra civile siriana, la crisi con la Russia, un’economia in rallentamento e l’indebolimento delle credenziali democratiche, la Turchia ha davvero bisogno di quella “unità nazionale” a cui il presidente Erdogan e il primo ministro Davutoglu fanno spesso appello.    

Ma ciò richiede una leadership più costruttiva, che non persegua l’unità nazionale sotto la ristretta bandiera ideologica del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP), ma sotto un ampio ombrello che accolga tutti i diversi colori della complessa società turca. 

Mustafa Akyol è un giornalista turco, opinionista regolare su Al-Monitor e autore di “Islam senza estremi: un caso musulmano per la libertà”.

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