Uscire dal labirinto del femminismo islamico

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Salvare la fede dal fardello del diritto: Uscire dal labirinto del femminismo islamico

Articolo di Minoo Mirshahvalad

Questo contributo è stato presentato nella IV Tavola rotonda Donne e religioni tenutasi a Bologna presso la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII (FSCIRE), organizzata dall’Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne (OIVD). Esso è inserito nel volume curato dalla presidente del OIVD, Paola Cavallari ed è pubblicato recentemente dalla Effatà Editrice.

 

“Donne maritate possono essere impossessate dai guerrieri musulmani che le riducono in schiavitù” (Corano 4:24). Questo è uno di quei decreti coranici che se oggi non ci inorridiscono, nelle migliori delle ipotesi ci lasciano perplessi sulle qualità dell’autore dell’ordine. Quest’ultimo, se lo consideriamo Dio, sarà stato a tal punto miope che non ha previsto che secoli dopo quest’ordine, le sue creature umane (salvo alcuni casi) non avrebbero saputo più cosa costruire con le norme che lui ha previsto per regolare la schiavitù. La benevolenza di tale autorità non può essere più oggetto della fede dell’essere umano del ventunesimo secolo perché il senso della benevolenza è cambiato.

Il latino fides significa la lealtà, l’impegno, la fedeltà e nel senso stretto vuol dire accettare dottrine non razionalmente dimostrabili ma ciononostante ritenute vere solo perché sancite da un ente sovrumano presunto benevolo e affidabile. Per questo motivo il fedele si abbandona fiduciosamente nelle mani di questo essere. Da tale rapporto con l’ente sovrumano non si può trarre nessun tipo di diritto, né quello basato sull’immutabilità della natura umana, né tantomeno quello che sta alla base della codificazione moderna delle norme di condotta. La fede è la via di arrivo a Dio senza garantire la costruzione o il miglioramento della vita sociale. Nel Corano infatti è stato enfatizzato a varie riprese l’assenza di alcun dovere di Dio nei confronti delle proprie creature. Pertanto il diritto umano si sviluppa meramente sul piano inter-umano.

Non vi è alcun dubbio che quei versetti coranici che hanno valenza sociale nel momento della “rivelazione” contenevano messaggi rivoluzionari anche per quanto concerne la situazione della donna. Per esempio, la donna araba che nel periodo pre-Islamico non ereditava niente, ora, secondo il Corano, può avere la concessione di metà di quello che spetta al suo fratello (4:176). La vita coniugale viene strutturata con i nuovi regolamenti per la poligamia e il divorzio in modo da arginare i costumi corrotti e il godimento sessuale sfrenato. Questi versetti sono maggiormente reperibili nei capitoli secondo, quarto e sessantacinquesimo del Corano. Durante il medioevo abbiamo scarsa notizia delle attività culturali, sociali o politiche delle donne. In questo periodo le scuole del diritto islamico e le norme di condotta si formano in assenza delle donne e il libro, inizialmente rivoluzionario, diventa conforme al proprio tempo. Tuttavia, il periodo moderno giunge mentre il mondo è pregno di circostanze sociali che indirettamente ri-valorizzano il Corano.

All’inizio del ventesimo secolo la modernità partorì una sua antitesi ovvero il tradizionalismo. La prole non fu però un ritorno alla tradizione ma una sua ri-fabbricazione per arginare le frustrazioni della madre ovvero la modernità. In seguito, il tradizionalismo si sviluppò sotto forme diverse. Nell’era delle lotte anti-coloniali il femminismo islamico (FIS) emerse come un’alternativa autoctona al femminismo sviluppato nel contesto d’origine dei colonizzatori. Sin dal suo concepimento, il FIS condivide la convinzione basilare di un’altra espressione del tradizionalismo ovvero il fondamentalismo islamico. Malgrado le loro sfumature e il loro conflitto sulla questione femminile, il loro principio fondante è il medesimo. Dunque, si parte dal presupposto che le definizioni coraniche dell’essere umano e dei suoi diritti siano ancora valide e servirebbe eventualmente solo una loro “giusta” rilettura.

Il contatto dei conquistatori europei con la cultura islamica solleva la consapevolezza della condizione deplorevole della donna nei paesi maggiormente abitati dai musulmani. Le donne musulmane fautrici del FIS per scagionare la tradizione che offriva una fonte di resistenza ai loro paesi sottomessi al potere coloniale hanno cercato di salvare il Corano indirizzando lo sguardo scettico dei colonizzatori verso due imputati. Il primo responsabile della situazione della donna viene considerato la raccolta dei detti e fatti del Profeta (e nel caso degli sciiti anche della sua famiglia) chiamata Hadith. Il problema di questi racconti è che il controllo della loro autenticità richiede un impegno maggiore rispetto al Corano ed essi sono stati più oggetto di manipolazione maschile. Di conseguenza, questi racconti sono meno autorevoli e più facilmente criticabili e infatti la loro critica non desta la sensibilità che desterebbe la critica del Corano.

Il secondo responsabile della situazione viene considerato l’esegesi del Corano. L’idea principale è che le violenze perpetrate ai diritti umani delle donne e le disuguaglianze di genere osservabili nei paesi islamici derivino dall’assenza delle donne durante il concepimento delle scuole del diritto islamico che ha aperto la via al maschilismo che domina le società a maggioranza islamica. Autori come Fatima Mernissi, Nimat Hafez Barazangi, Riffat Hassan e Amina Wadud ritengono che in assenza delle donne, gli esegeti, i giuristi e le figure clericali hanno definito la donna in maniera tale che ha giustificato la disuguaglianza di genere. Altrimenti una “giusta” esegesi del Corano avrebbe potuto mostrare l’insita uguaglianza di genere del testo “sacro”.
Qua brevemente vediamo le problematiche che emergono da tale convinzione.

1. Il primo problema nasce perché il FIS confonde due piani diversi della tradizione islamica: il piano del rapporto inter-umano con quello dell’uomo-Dio. Nel secondo tipo di rapporto non esiste dinanzi all’uomo un ente che può sostenere la conosciuta bilancia tra diritti e doveri. Dio non ha doveri da adempiere, casomai ha dei diritti. Il rapporto uomo-Dio si forma sull’accettazione unilaterale dell’autorità di Dio da parte dell’essere umano. Il diritto umano dunque è estraneo alla fede e si consolida meramente sul piano interpersonale. Un musulmano per rinforzare la propria fede non ha bisogno dei diritti prescritti in un testo sacro e la realtà dei fatti ce lo conferma. Gran parte dei musulmani non legge mai il Corano sennonché per i rituali utili alla sua vita sociale come il matrimonio, il funerale, i riti di passaggio, la nascita di un bambino, ecc. Tanti dei musulmani non arabofoni (gran parte del mondo islamico) potrebbero non comprendere pienamente il senso di tutto il testo. Queste sono tra le ragioni per cui una classe originariamente estranea all’Islam chiamata ulama (lett., i savi, nel senso largo corrisponde al clero) emerge e si sviluppa nel tempo. Il fedele nel rapporto con Dio non si domanda dei propri diritti. La definizione di quest’ultimo è l’onere degli ulama. La confusione tra i due piani summenzionati fa sì che il FIS trascuri l’ingenuità della fede pretendendo che la fede faccia ciò che le è estraneo ovvero definire una serie di diritti favorevoli alla donna. Da questo punto di vista il danno che reca il FIS alla fede è paragonabile a quello del fondamentalismo islamico. Ambedue questi attivismi partono dal presupposto che il Corano abbia qualche utilità per la vita sociale nel periodo moderno.

2. Il secondo punto spinoso che sorge dall’attivismo del FIS è lo sviluppo di una convinzione che promuove il trascurare la radice del problema. La nascita della classe clericale parte dalla convinzione che esista una “giusta” lettura del Corano. Siffatta convinzione plasma la classe di coloro che sanno interpretare il testo versus coloro che non lo sanno. Dunque si specializza la lettura del testo eliminando l’immediatezza e l’ingenuità del rapporto del fedele con il testo anche se uno dei motivi per cui il Corano biasima i cristiani e gli ebrei è proprio quello di aver preso il clero come loro autorità (9:31). La classe dei “savi” inventa gli strumenti per la “giusta” lettura del Corano e un gergo estraneo all’orecchio del popolo per garantire la distanza dei non specialisti al testo e dunque per salvaguardare i propri privilegi. L’idea della “giusta” lettura cerca gli standard e crea i tecnici della lettura.

3. Il terzo effetto collaterale dell’attivismo del FIS riguarda il suo rifiuto di datare e contestualizzare il Corano. Il diritto dell’uomo alla poligamia (4:3[1]), all’eredità maggiore (4:11, 4:176), a guidare la famiglia (4:34), a educare la donna (4:34), a godersi la donna in qualsiasi maniera e momento (2:223) e il valore maggiore della testimonianza dell’uomo (2:282) riflettono la cultura dell’Arabia del settimo secolo e delle altre culture e religioni con le quali hanno avuto contatto l’autore o gli autori del Corano. Tuttavia, il FIS per spiegare la misoginia dominante nelle società a maggioranza islamica crea un mega contenitore chiamato cultura (o le culture) dove si possono buttare tutto il pattume mentale dell’essere umano formatosi nell’arco dei secoli. Questo contenitore è il capro espiatorio del FIS che ritiene che il Corano sia una realtà immacolata, sovrastorica, sovrumana, sovra-tempo e sovra-spazio perfettamente sterilizzata e congelata in cui non sono mai penetrati i condizionamenti umani. La ragion per cui il FIS insiste su queste qualità del testo è quella di non perdere il perno della tradizione a cui fa riferimento. I hadith, l’esegesi coranica e il clero potrebbero essere criticati ma non il Corano ovvero l’ultimo baluardo amovibile per ripararsi dalle nefandezze della vita moderna.

Quando il FIS deve trovare l’imputato a cui attribuire le radici delle violenze perpetrate ai diritti umani della donna fa appello alle realtà medioevali come l’impero bizantino, sassanide, abbaside, ottomano, oppure alle realtà odierne, quindi al fondamentalismo islamico nei paesi di origine o agli immigrati in Europa. Per quanto concerne quest’ultimo, le “culture” o l’imputato si trovano principalmente nell’Africa e nel sud-est asiatico: la principale terra d’origine dei flussi migratori che giungono nel vecchio continente. Gli immigrati che arrivano in Europa per motivi di lavoro o per chiedere protezione socio-politica solitamente acquisiscono una scarsa padronanza linguistica e quindi si integrano poco nel contesto sociale europeo. Dunque, l’immigrato che non conosce le raffinatezze europee a volte ha comportamenti indifendibili, ma per il FIS recita il ruolo cruciale dell’imputato di turno. Il FIS non contestualizza il Corano e se lo fa non affronta un paradosso fondamentale, ovvero il fatto che se il testo presenta i condizionamenti del proprio contesto storico perché e come si deve continuare a considerarlo sacro?

Sembra dunque che la connotazione del sacro non sia chiara per gli attivisti che camminano sotto la bandiera del FIS. Il latino sacer (come la radice araba h-r-m) produce lo stesso gamma di lemmi che implicano le realtà inaccessibili all’essere umano. L’alterità del sacro ai condizionamenti umani lo proteggono dal mutamento. E’ l’immutabilità che suscita la riverenza e la venerazione, altrimenti l’ente umano non proverebbe il fascino atterrito nel suo contatto con l’ente reputato sacro. Se invece il Corano non è sacro, perché esitiamo a produrne una versione critica?

Ma esiste una via d’uscita da questo labirinto in cui si è perso il FIS? La risposta è positiva. Per uscirne, il primo punto da considerare è salvare la fede dall’invadenza del diritto. La fede non ha bisogno di soddisfare le esigenze corporali o sociali per essere valorizzata. Si fa il digiuno non per abbattere il colesterolo alto o per dimagrire. Si evita la carne di maiale non perché è una carne meno pregiata di altre. Si devono evitare le bevande alcoliche non perché l’alcol ha effetti negativi sul cervello. La preghiera dunque non è una ginnastica per il corpo e non è nemmeno la ricerca del paradiso. La fede non esige giustificazioni e forzature. Essa è bella nella sua incomprensibilità e nelle sue contraddizioni. Il creato non ha alcun diritto di esistere. Tutto è un dono e Dio non ha mai avuto alcun dovere nei confronti delle proprie creature, nemmeno il dovere di trattare la donna e l’uomo ugualmente.

Non vi è bisogno che il Corano sia la fonte del diritto, misogino o filogino che sia, per essere apprezzato. Il Corano contiene messaggi mistici bellissimi che soddisfano il bisogno dell’essere umano moderno del mistero, dell’inspiegabile, della protezione, dell’affetto e della sicurezza che non sono reperibili nel mondo odierno. Per esempio il fatto che noi conteniamo lo spirito di Dio (15:29) e che Dio è onnipresente (2:115, 57:3-4) e onnisciente (59:22-24) ci assicurano l’accesso a una fonte infinita di protezione. Questa fonte però è comprensibile solo attraverso l’intuizione e non la ragione. La si può trovare sia nel mondo che nel proprio spirito (51:20-21) ma la si può contemplare solo con l’occhio interno (2:115, 35:19, 41: 53, 50:16). A noi oggi bastano questi messaggi per salvare l’umanità. Questi sono il nocciolo immutabile del Corano.

Il FIS e tutti gli intellettuali, movimenti e attivisti che cercano di conciliare il testo “sacro” con la vita moderna potrebbe uscire da questo groviglio partendo dalla lettura critica del Corano stesso. Non ritengo che il Corano sia l’unica fonte da analizzare criticamente, ma è il primo punto da sviscerare con il coraggio, altrimenti continuiamo a cercare l’imputato solo altrove. Concludo con il versetto 14 del capitolo Hujurat (49) del Corano. I beduini delle tribù arabe intorno al Yathrib temevano l’attacco militare del Profeta e quindi per salvarsi dall’assalto imminente fingono di essere musulmani. In quel momento Iddio disse al Profeta di rispondergli che loro sono musulmani (lett., sottomessi) ma non fedeli. Il senso di questo versetto è che la fede non è la sottomissione alle definizioni della donna e dell’uomo stabilite nel settimo secolo. La fede richiede la visione del cuore (35:19) per giungere la “dimora della quiete” e per compiere questo percorso non servono la giurisprudenza, l’attivismo e nemmeno il testo sacro.

 

[1] Alla fine del capitolo quattro del Corano, questo diritto del maschio viene revocato. Tuttavia, non si spiega perché un certo diritto viene garantito al maschio all’inizio del capitolo e alla fine dello stesso viene revocato.

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