Salve a tutti! come anticipato nell’articolo apparso ieri in questo nostro salotto, ecco la seconda parte dell’intervista a Stefano Albarello. Considero questa intervista un gioiello, per i suoi alti contenuti musicali e le riflessioni che suggerisce. Le questioni da me sollevate e che, come annunciato, avrebbero suscitato risposte aperte e variegate proprio per l’inafferrabilità dell’argomento proposto, costituiscono il fascino e la sfida che i musicisti affrontano nell’avvicinarsi a repertori antichi e di tradizione orale, nel nostro caso in riferimento al mondo Mediterraneo e Medio Orientale, nelle sue varie accezioni. Ecco la seconda parte dell’intervista, quindi, rimandando a tempi futuri la ripresa di alcuni argomenti qui sollevati, e il loro approfondimento con Stefano Albarello e con quanti vorranno apportare il loro contributo per un confronto aperto e prezioso.
C: Stefano, le musiche del Mediterraneo sono state tramandate, per secoli e secoli, per via orale. Non c’era la mentalità adatta per lasciare ai posteri qualcosa che era considerata prevalentemente arte di consumo e, del resto, non c’era una notazione capace di fissare la musica e ciò che riguardava la modalità giuste per eseguirla. Questo pone dei problemi a voi musicisti, nel momento in cui vi avvicinate alla musica antica e di tradizione orale, che sia cristiana, ad esempio, o araba o sefardita. Su quali elementi musicali potete contare, voi musicisti, e come vi ponete nei loro confronti? con quali criteri, quindi, fate sì che quelle tracce prendano corpo, si materializzino in suoni e voci, e giungano alle nostre orecchie?
S: L’assillo maggiore per chi si occupa di musica “antica”, sia essa scritta che di tradizione orale è sempre stato (almeno per me lo è) la spasmodica ricerca di tracce che ci possano avvicinare, con relativa certezza, alla prassi esecutiva del tempo. Dico subito che la cosa è puramente concettuale dato che, sia la distanza temporale che il retaggio artistico della nostra sensibilità moderna, certamente modellano la musica del passato secondo un gusto mediato dal nostro tempo. Mettendoci quindi l’anima in pace, possiamo pensare di travestirci (mentalmente) di un’aura di conoscenza degli aspetti sociali, storici e culturali del repertorio che ci interessa e cercare di calarci in quell’ambiente, privi però di quella capacità di scansione del tempo e dello spazio così come concepiti epidermicamente in quel tempo.
Intanto domandiamoci nel caso delle tradizioni orali quale sia il tempo esatto. Faccio un esempio: nel caso della musica sefardita a cosa ci vogliamo avvicinare, all’ambiente culturale degli ebrei finché hanno vissuto in Spagna? Oppure alle successive mutazioni culturali dopo l’esodo? Già questa domanda ci pone di fronte ad un numero considerevole di incognite e scelte drastiche.
C’è poi una distinzione netta rispetto ai repertori, mi spiego: le problematiche maggiori sono certamente nell’ambito della musica profana, perché nei repertori legati al sacro sia esso liturgico o paraliturgico la cosa è differente. In questo secondo caso il retaggio colto degli ambienti monastici o in generale della chiesa secolare hanno permesso che attraverso fonti scritte si siano conservati importanti repertori paragonabili a quelli ancora cantati in certe aree geografiche. Oppure attraverso esecutori che ancora oggi conservano certi repertori è stato possibile fare dei raffronti con fonti scritte a noi giunte attraverso la mediazione colta degli scriptoria medievali o delle fonti a stampa successive al medioevo.
In generale nel caso delle tradizioni orali soprattutto del mondo Islamico mediterraneo o sefardita, la difficoltà principale sta nella datazione epocale del repertorio. Con troppa leggerezza si datano i repertori adducendoli ad epoche medievali ad esempio per quanto riguarda gli arabi o i sefarditi, dimenticando che sia gli uni che gli altri hanno subito contaminazioni ed invasioni culturali che le hanno modificate drasticamente rispetto alle loro origini.
Per il mondo arabo pensare che non vi siano dati certi per cui attribuire quel poco di repertorio detto qadim cioè vecchio, è quanto mai aleatorio. Sia perché non possiamo dimenticare la dominazione Ottomana che ha azzerato quasi sempre le tradizioni locali, sia perché proprio per il senso storico di conservazione degli arabi, che con il termine “vecchio” spesso sancivano la messa in rottamazione delle musiche per sostituirle con delle nuove faceva sparire per sempre canti e musiche. Nel caso dei Sefarditi poi secondo le aree di ritrovamento dei canti è evidente la contaminazione con la cultura locale, ma anche con la modernizzazione. Allora risulta una forzatura eseguire certi canti in maniera strettamente modale per farli suonare come medievali, quando sappiamo che almeno per il Maghreb, siamo di fronte ad un repertorio stigmatizzato agli albori del rinascimento. O nel caso della Turchia con i generi del repertorio Ottomano fortemente influenzato da quello ellenico o persiano.
Il ragionamento mi spinge verso infinite sfaccettature di un diamante che non si può aprire per studiarlo dentro e poi sarebbe anche un peccato distruggerne la purezza e bellezza per guardarlo al suo interno per poi non scoprire nulla di più.
Personalmente ho studiato per anni la prassi esecutiva e il repertorio della musica araba (soprattutto del nord Africa) per cercare di trovare i contatti e le informazioni capaci di aiutarmi nell’interpretazione ma anche nella tecnica strumentale della musica medievale cristiana. Se da un lato mi sono arricchito musicalmente e tecnicamente dall’altro ho potuto constatare che risultano mondi differenti che hanno avuto contatti ma hanno conservato volontariamente la loro distinta identità. Oggi mi permetto di dire che se alla corte di Alfonso X di Castiglia dimoravano musicisti di varia confessione religiosa questo non vuol dire che essi suonassero insieme e soprattutto eseguissero un repertorio comune. In fondo lo scopo del Libro delle Cantigas de Santa Maria voleva essere politicamente il simbolo della supremazia cattolica sulle altre confessioni abraminiche. Perché illuderci di una vita di totale armonia tra i musicisti là dove alcuni erano tenuti in cattività?Ecco allora che un tipo di considerazione come questa può fare la differenza quando vai poi ad interpretare quelle cantigas.
Anni fa ho partecipato ad una eccezionale esperienza musicale con l’Orchestra Arabo Andalusa di Tangeri, dove abbiamo suonato e cantato insieme brani del repertorio medievale ispanco con frammenti della nouba andalusa e del repertorio sefardita del Maghreb (rappresentato dalla splndida voce di Esti Kenan Ofri). Sicuramente tutto si mescolava magicamente insieme, ma nel caso delle cantigas cattoliche eseguite in quel concerto esse si sono adattate allo stile tipico della musica del nord Africa (almeno come oggi viene suonata) ma certamente si stavano allontanando dal loro contesto originale; basti pensare che nell’orchestra andalusa la fanno da padrone i violini (che all’epoca non esistevano). Diversamente le cantigas sefardite che erano prettamente degli ebrei del Marocco si amalgamavano perfettamente con lo stile nord africano del repertorio arabo ma meno con quello specifico della nouba andalusa. Alle orecchie del pubblico tutto suona straordinariamente amalgamato ma si tratta di una operazione colta sebbene suonata da musicisti di tradizione. Questa è una operazione che definirei interessante ma non certo una ricostruzione di qualcosa che è stato dei tempi passati.
Ho citato questa mia bellissima esperienza per arrivare al nodo del problema; se è intenzione del musicista contemporaneo quello di suonare musiche antiche con lo spirito del tempo, questi si troverà di fronte alla difficoltà di capire anche attraverso musicisti di tradizione quale sia il grado di conservazione delle melodie e delle modalità esecutive dopo centinaia di anni. Ammesso che quei brani abbiano una datazione possibile. Perché è anche questo il problema, ma possiamo dire con certezza che le melodie dei canti sefarditi siano realmente risalenti all’esodo? Mentre per molti testi abbiamo un riscontro scritto che ci permette di datarli almeno al XVI secolo delle musiche cosa possiamo dire? Per non parlare del problema delle nostre orchestrazioni. Nel caso dei sefarditi, ad esempio ci restano i repertori a voce sola a volte accompagnate con un tamburello. Da questo dato il rigore ci imporrebbe di eseguirli così; eppure oggi le suoniamo accompagnate chi da strumenti medievali o rinascimentali, chi da strumenti delle tradizioni locali (dal Marocco al Medioriente). Ma sono operazioni anch’esse mediamente colte, studiate a tavolino e messe in pratica.
Nel caso delle culture cristiane i canti tradizionali evidentemente hanno subito la contaminazione dei tempi e gli esecutori che ce le tramandano sono anch’essi vittime inconsapevoli dei gusti e delle modificazioni culturali.
Allora un punto di vista interpretativo, là dove possibile, è paradossalmente aiutato dai contributi di fonti colte che hanno in qualche modo stigmatizzato aspetti della musica di tradizione in testi di divulgazione restituendoci fonti testuali e musicali per iscritte. Non si tratta almeno fino al XVIII secolo di fonti etnomusicali ma di certo sono fotografie che in qualche modo fissano un era precisa.
In ultimo mi permetto di porci alcune domande a cui non trovo anche io una risposta precisa e definitiva. Ma cosa intendiamo per musica di tradizione orale? Quella che non si trova tramandata in fonti manoscritte o a stampa? Quella che si dice di stampo popolare? Quella che identifica delle specifiche aree geografiche o culturali definite attraverso l’uso di strumenti musicali locali o di canti in specifiche lingue?
Potrei andare oltre ma solo queste domande aiuterebbero a circoscrivere l’ambito di ricerca sebbene non risolvano la problematica del capire quanto esse stesse non siano state mediate da menti e ambienti colti all’interno dei palazzi e non per le strade.
Faccio due esempi che mi riguardano da vicino: i canti del Gargano che da alcuni decenni sono ritornati in auge grazie alla volontà di anziani e giovani musicisti (non intendo questo termine da un punto di vista della figura strettamente professionista). Ebbene, i Cantori di Carpino ad esempio non erano lo standard dell’ensemble atto ad eseguire quei canti. Essi furono come dire messi insieme per realizzare un revival su indicazioni di studiosi accademici. Eppure ognuno di loro era depositario semi autonomo di un repertorio. Cosa voglio dire? Che in quel caso specifico non si pone attenzione alla caratteristica peculiare e forse antica di quel genere. Cioè di singoli esecutori (voce e chitarra battente), una specie di trovatori del secolo scorso che componevano o tramandavo con la loro memoria questo repertorio arricchendolo con versi di loro consapevole creatività. Oggi invece assistiamo ad ensemble che, al di là dell’uso di strumenti musicali estranei, suonano in grandi formazioni che sono a mio avviso ben lontane dall’intimo stile del portare la serenata come era un tempo.
Il secondo esempio è quello relativo al mondo musicale della musica tradizionale dell’odierna Turchia; ritenuto da molti il proseguimento della gloriosa cultura musicale ottomana. Anche qui a parte la frattura storica del modernismo attuato nel secolo scorso vi è da tener presente che non siamo spesso di fronte ad un repertorio spontaneo ma ad una precisa evoluzione e ricerca fatta in un ambiente colto. In questo secondo caso (ed è oggetto da parte mia di recenti studi) esistono fonti manoscritte dal XVI secolo in poi che ci testimoniano una precisa evoluzione oltre che datazione del repertorio. Eppure i musicisti odierni si sentono consapevolmente depositari della prosecuzione di una tradizione che, a giudicare dalle fonti scritte, sembra invece abbastanza modificata dai tempi. Questo secondo caso è forse una forzatura se consideriamo che non stiamo parlando di canti tradizionali del popolo ma di un ambiente culturale in massima parte di corte. Ma allora anche la canzone napoletana non è mai stato canto di tradizione, essa nasceva nei salotti e non nelle strade e fu evidentemente il frutto di una società borghese che veniva dalla tradizione di popolo ma che si voleva distinguere per sue precise peculiarità di stile compositivo.
Allora anche in questo ultimo esempio pensare che il canto di lavandaje: “Tu m’aje prummise quattro moccatura”, contenuto nei Passatempi Musicali del 1824_25 per i tipi di Giraud e realizzata dal francese Guillaume Louis Cottrau nella versione per canto e pianoforte, non si possa realmente credere un ancestrale canto risalente al XV secolo come molti hanno detto. Magari ci si potrebbe accontentare di pensare che sia almeno un canto di tradizione dei primi dell’ottocento. E sarebbe già una gran soddisfazione senza scomodare sempre i padri dei padri per addurre i canti di tradizione sempre a tempi remotissimi.
Per quanto mi riguarda il mio tentativo negli studi e nelle esecuzioni è quello di avere per primo una consapevolezza dei fattori che ruotano intorno al repertorio in questione, cercando di scremare gli strati evidentemente più recenti che in certi casi sono evidenti. Rispetto al mio specifico della musica medievale invece ho assunto la consapevolezza che ci sono sicuramente dei riferimenti che almeno dal punto di vista esecutivo si ritrovano in certi ambienti della tradizione musicale orale; essi possono essere uno degli strumenti di lettura del repertorio conosciuto dai manoscritti ma non possono diventare l’unico veicolo. E’ questa una critica amichevole che muovo verso certi esecutori che forzano i repertori evidentemente più aulici travestendoli di un “sound” popolareggiante prendendo qua e la dalle varie tradizioni a volte piuttosto avulse a certi ambienti. Ma poiché anche nel nostro ristretto e piccolo ambito della early music ci si deve distinguere per leggi di mercato, spesso si scivola nell’accomodare la musica ad un unico stile esecutivo. Io credo di aver fin ora tentato di adeguare alle conoscenze e alle situazioni storico-culturali la prassi esecutiva di ogni repertorio affrontato, cercando quando possibile di approfittare dei suggerimenti della tradizione vivente ma senza forzarla. Che poi ci sia riuscito non sta solo a me giudicarlo
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