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Amen

Dopo la stima ufficiale dell’ONU, secondo cui sarebbero più di sessantamila i siriani uccisi da poco meno di due anni a questa parte, ho iniziato a riflettere sugli inizi, su quando si parlava entusiasticamente di rivolta per la democrazia e su come si sia arrivati a questo massacro fratricida. E così ho ripescato dalla memoria (e dal mio vecchio computer) un articolo scritto il 27 marzo del 2011, poco più di una settimana dopo l’inizio delle rivolte in Siria. Lo ripropongo qui sotto, prima dell’uscita del nuovo, perché secondo me può essere un buon modo per ricordare come si è innescato tutto e per avere una visione più ampia di quello che ormai è diventata una questione umanitaria.

Articolo di Giusy Regina (27/03/2011)

Si narra che il profeta Muhammad, partito dalla Mecca per i suoi viaggi, giunse in vista di Damasco ma si rifiutò di mettervi piede perché “non si poteva entrare due volte in paradiso”. La stessa città che indusse il profeta a tornare sui suoi passi, profuma oggi di rivolta.

Ebbene sì, è capitolata anche la Siria. Le rivolte di Daraa hanno avuto un seguito anche a Homs e soprattutto a Lattakia, città originaria della famiglia presidenziale a nord del paese, da sempre tappezzata con manifesti e locandine varie del presidente (tra qualche giorno forse ex) Bashar al-Assad e del padre. Come da manuale, rivolte e manifestazioni sono state affrontate con le armi. Si parla di oltre 120 morti.

E intanto il presidente assicura riforme, sia quelle promesse già nel 2000 ai tempi della sua elezione, sia di nuove: salari aumentati del 20% per tutti i dipendenti pubblici, nuova legge economica, riforme sulla stampa e la carcerazione di giornalisti, modifica dell’articolo 8 della costituzione, che riconosce nel Baath il partito guida della Siria. Qualcosa è stato già annunciato come fatto: l’abrogazione della legge marziale (o d’emergenza) ad esempio, attiva dal colpo di stato del 1963, che sospende molte garanzie costituzionali e aumenta il potere del presidente. Era ancora in vigore in Siria, motivata ufficialmente dallo stato di guerra con Israele e dalla minaccia del terrorismo.

Ma stavolta si teme che tutte le promesse del mondo non serviranno. Le proteste degli ultimi dodici giorni hanno riportato alla vita quel paese così calmo in superficie, forse troppo, che nascondeva un regime totalitario, caratterizzato da un Islam sempre più radicale. “Nascondeva”, perché la sensazione arrivando a Damasco è completamente differente: tutte le religioni appaiono convivere pacificamente e le divisioni tra il quartiere cristiano di Bab Touma e quello musulmano sembrano tracciate solo da un grande arco in pietra, disegnando un quadro curioso e variegato, che fa sentire a proprio agio. Eppure la realtà era un’altra.

Oggi, mentre l’appello alla rivolta arriva su Facebook facendo proseliti, è atteso per domani l’annuncio delle dimissioni del governo, che sarà sostituito da un altro che avrà il compito di riformare il paese come richiesto dai cittadini. Lo annunciano fonti ufficiali alla tv al-Arabiyya.

E intanto il mondo, scosso dalla Libia e dalla tragedia giapponese, sembra non accorgersi a pieno della grave crisi di consenso nei confronti di un governo che rappresenta tutto quello con cui l’occidente identifica e ha sempre identificato il mondo arabo. Forse qualcuno, anzi molti, non ritenevano possibile un simile slancio verso la libertà e la democrazia da parte dei paesi arabi, soprattutto dalla Siria. Ma a quanto pare ci hanno sorpreso. D’altronde questo momento doveva arrivare, ma la speranza è che tutto ciò serva davvero a cambiare le cose e ad avere più giustizia in questi paesi che si sono dimostrati davvero stanchi e coraggiosi. Per il resto, non possiamo far altro che prenderne atto. E così sia.

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