Quella che vi propongo oggi è una interessante analisi sul rapporto fra Islam e capitalismo in Arabia Saudita, svolta da Emiliano Laurenzi, dottore di ricerca in Sociologia della comunicazione e dello spettacolo, in due sue recenti pubblicazioni per i tipi di ManifestoLibri: “Islamismo capitalista. Il wahhabismo in Arabia Saudita” (2019) e “Figli del loro tempo” (2023).
Le due pubblicazioni rappresentano un percorso unitario e consecutivo che ha cercato di svilupparsi intorno a una duplice domanda “Come si relaziona la religione islamica – nel novero delle religioni rivelate – rispetto alla diffusione ormai planetaria del capitalismo e del suo modo di plasmare e regolare la vita e le interazioni di miliardi di persone?” e ancora “Sulla base di quali caratteristiche e di quali processi si costituisce il terreno di scontro, contaminazione, mutazione, alterazione ed adattamento fra Islam e capitalismo?”.
Partendo da questi due interrogativi l’autore procede con una dettagliata e accurata ricostruzione storica sullo sviluppo del wahhabismo che parte proprio dall’ascesa dei Saud, dai miti di fondazione e di purezza. “Quanto più ci si allontana dal momento della rivelazione, più i costumi degli uomini decadono dalla purezza (…) Il gesto rivoluzionario, dunque, è restaurare la purezza originaria”. In questa ottica il wahhabismo diventa la materializzazione di un presente che deve obbedire ai precetti originari. Parallelamente, ci fa notare l’autore, il capitalismo concede al consumatore esclusivamente la dimensione del presente, quella nella quale deve sfogare nel consumo tutte le sue frustrazioni.
Il primo libro, “Islamismo capitalista”, disegna l’evoluzione storica di quella che oggi conosciamo come Arabia Saudita, dettagliando i movimenti religiosi e politici che hanno portato all’ascesa dei Saud e ad una nazione dove il “petro-Islam” ha garantito e continua a garantire la diffusione del wahhabismo in un contesto profondamente capitalistico ma, in maniera contraddittoria, totalmente sganciato da un percorso di modernità.
Proprio questi aspetti vengono poi indagati da Laurenzi nel secondo volume, “Figli del loro tempo”.
“Via via che l’Arabia Saudita entrava in un sempre più articolato contatto con la modernità, i muwahhidun non respinsero affatto benessere e arricchimento”. Al contrario, vennero elaborate regole di comportamento che definivano le aree di ciò che era permesso e quelle di ciò che non lo era.
Nel proseguimento della rappresentazione dell’evoluzione storica e sociale dell’Arabia Saudita, l’autore sottolinea come, a partire dagli anni ’70, la società saudita si sia calata in un consumismo sfrenato al quale ha fatto da contraltare l’assoluta mancanza di un’etica del lavoro, come testimoniato dalle condizioni di semi schiavitù nelle quali erano costretti a vivere i numerosissimi lavoratori immigrati asiatici riversatisi nel regno. Ciò che si è quindi determinato nella società saudita è stato un sistema capitalistico ben sostenuto da un controllo politico e sociale che in alcuni aspetti si può definire dittatoriale.
Di particolare interesse anche l’analisi che l’autore fa della relazione fra Islam e mondo finanziario. Si ricorda infatti che nel 1975 in Arabia Saudita viene fondata la Islamic Development Bank, che doveva sviluppare la finanza islamica e nel 1979 vede la luce lo Shariah Supervisory Board, un organismo indipendente con il compito di certificare i prodotti finanziari attraverso apposite fatawa. Tutto questo, come ben ci rappresenta Laurenzi, porta ad una espansione dell’economia capitalista alla quale però non corrisponde un miglioramento delle condizioni sociali e una evoluzione politica in senso progressista della nazione saudita.
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