Articolo e foto di Maddalena Goi.
La Giordania è uno dei tanti paesi a subire le dirette e drammatiche conseguenze create dai conflitti e dalle persecuzioni mondiali. La posizione geografica del regno, al confine con Iraq e Siria da una parte e i Territori Palestinesi dall’altra, la rende particolarmente sensibile agli influssi di un alto numero di rifugiati e richiedenti asilo. Tuttavia, il paese è molto povero di risorse naturali: le sue risorse idriche sono tra le più scarse al mondo e la sua struttura produttiva è poco diversificata. Questi fattori incidono in maniera significativa sulle sue capacità di accoglienza.
Le più alte concentrazioni di rifugiati si ritrovano alloggiate nelle grandi città come Amman, Irbid, Mafraq e Zarqa, mentre solo il 25% vive nei campi profughi.
La Giordania, prima fra tutti, è stata il santuario di salvezza dei rifugiati palestinesi scappati dalle loro terre in seguito alla nascita dello stato di Israele nel 1948. Ma i profughi più numerosi sono i siriani giunti sin dall’inizio della guerra civile. Secondo le stime realizzate dal governo, attualmente, sono un milione e 400mila i siriani accolti nel regno di cui solo 635.324 registrati all’ONU. Circa il 20% di questi ultimi vive nei campi profughi di Azraq e Zaatari, il resto risiede nei centri urbani. Su appena 6milioni e mezzo di abitanti giordani, i rifugiati siriani costituiscono il 21% della popolazione giordana totale.
I profughi iracheni hanno invece iniziato a giungere nel regno a partire dal 2003, a seguito dell’ultima Guerra del Golfo in cui almeno due milioni di iracheni hanno abbandonato il loro paese. L’esodo iracheno continua ancora oggi con la migrazione forzata di molti per fuggire all’offensiva del sedicente Stato Islamico. Si tratta per lo più delle comunità cristiane siriache oggi perseguitate da Daesh (ISIS). Secondo le stime dell’UNHCR i rifugiati iracheni attualmente registrati in Giordania sarebbero almeno 58mila, mentre gli iracheni cristiani sono 8.500.
A partire dall’agosto 2014, quindici diverse chiese hanno aperto le loro porte in tutta la Giordania per accogliere i profughi iracheni. Molti di questi sono sostenuti e aiutati dalla Caritas giordana di Amman che si occupa di fornire loro i servizi fondamentali fra cui cibo su base regolare, cure mediche e assistenza umanitaria. La maggior parte dei rifugiati proviene dalle città di Mosul e Qaraqosh e, dopo più di un anno, la situazione per loro è rimasta pressoché immutata: molti, infatti, vivono ancora all’interno di queste residenze provvisorie.
Grazie all’aiuto della Caritas giordana è stato possibile visitare tre di queste strutture di accoglienza dedicate ai profughi cristiani iracheni e queste sono le storie raccolte. (Le foto e le interviste risalgono al periodo di giugno 2015 e sono state realizzate in collaborazione con Telepace Holyland TV, un’emittente italiana attiva in modo stabile in Terra Santa sin dal 2004).
Per rispetto della privacy i nomi sono inventati.
“Mi chiamo Nivin, da Mosul, sono sposata con due bambini. Siamo stati costretti a lasciare Homs a causa di Daesh, siamo fuggiti solo con i nostri vestiti addosso, non potevamo tornare alle nostre case per prendere qualcosa… Siamo fuggiti verso il Kurdistan, ad Erbil e siamo stati lì per qualche giorno poi siamo riusciti ad ottenere un visto e venire in Giordania grazie all’aiuto di un prete. Siamo in dieci persone, due famiglie in una sola stanza. Quando siamo giunti qui credevamo che l’UNHCR ci avrebbe mandato a vivere in un altro paese, non credevamo che saremmo rimasti qui così tanto tempo, è quasi un anno ormai. Quando abbiamo chiamato l’UNHCR per chiedere informazioni, ci hanno detto di aspettare e che ci avrebbero chiamati loro. Ma siamo qui da un anno senza ricevere nessuna comunicazione. Ora mia sorella soffre di cuore e di crisi di panico per quello che ha passato a causa di Daesh. Chiediamo di essere aiutati. Non possiamo tornare in Iraq. È impossibile. Abbiamo perso tutto, le nostre case, la nostra sicurezza, le nostre proprietà… ci hanno preso tutto. Tutti sono scappati. Quelli che sono rimasti a Mosul sono stati costretti o a convertirsi o a pagare la jizya, altrimenti vengono uccisi. Gli altri cristiani sono fuggiti.”
“Sono Raid. Mosul è caduta il 10 giugno, dopo sono caduti anche altri territori come Sinjar dove ci sono cristiani e yazidi. Gli uomini di Daesh li hanno uccisi e derubati. Le ragazze invece sono state rapite e violentate, la maggior parte di loro sono giovani tra i 12 e i 25 anni. Centinaia sono finite così e le hanno vendute a Raqqa, in Siria, e a Mosul a prezzi irrisori: 500$ ognuna. Abbiamo lasciato tutto per preservare la nostra anima e la nostra fede. Siamo partiti solo con i vestiti addosso, non abbiamo preso nient’altro. Abbiamo impiegato 15 ore per giungere a Ein Qawa perché c’erano tantissime persone in fuga. Anche la città di Ein Qawa era piena di gente. Siamo rimasti per tanti giorni a dormire sui marciapiedi, per strada o nei giardini.”
Il cristianesimo in Iraq risale a quasi 2000 anni fa. Mosul e le città circostanti sulla piana di Ninive rappresentano il cuore della religione cristiana ma oggi, i cristiani come del resto altre minoranze, non sono altro che una popolazione in fuga.
“Mi chiamo Rita e vengo da Qaraqosh. Siamo scappati dal nostro paese senza nulla, viviamo ora dentro dei caravan. Durante l’inverno siamo morti di freddo, durante l’estate si muore di caldo. Fino a quando dovremo rimanere in queste condizioni? Forse voi potete aiutarci ad uscirne. Io non riesco a camminare, dovrei comprare delle medicine, ognuna costa 400 dinari giordani e avrei bisogno di due confezioni per ciascuna gamba. I nostri figli sono rimasti in Iraq, senza passaporto e senza soldi, e qui non possono venire. Fino a quando rimarremo così? I bambini non possono andare a scuola, non hanno niente da fare, tutti i giorni senza scuola. Dormiamo in 5/6 in un caravan. Non c’è il posto né di entrare né di muoversi. In Iraq abbiamo perso tutto. La comunità cristiana (60mila cristiani siro-cattolici) è in Iraq da lunghissimo tempo. Abbiamo 10 chiese a Qaraqosh ma non ci sono chiese simili nel mondo. E ora tutte le nostre chiese sono state distrutte, tutte. Il nostro cuore si infiamma per le nostre chiese. Ma la cosa che più mi fa male è che hanno distrutto le croci e le icone della Vergine Maria. Tutti sono in lacrime. Non possiamo parlare delle nostre chiese senza che il cuore dentro ci bruci ogni volta.”
Vivere da profughi non è semplice, le giornate trascorrono nella trepidazione dell’attesa per una chiamata che li trasferisca altrove. I bambini che sono rimasti privati dei loro spazi, della loro istruzione e dei loro affetti nel giro di pochissime ore, non hanno accesso all’istruzione e spesso manifestano il senso del disadattamento e della fuga comportandosi in maniera aggressiva. I profughi godono di uno status temporaneo nel paese, non sono considerati cittadini giordani quindi non sono autorizzati a lavorare né a percepire un salario.
“Siamo una famiglia con due bambine e veniamo da Mosul. Qui non facciamo niente tutto il giorno ma è molto difficile vivere così, ci sono tante famiglie. Vogliamo mandare a scuola i nostri bambini, qui da noi la vita si è fermata, è sospesa. Noi eravamo abituati a lavorare ogni giorno, perché quando lavori nutri la tua personalità, ma qui non c’è lavoro. Ringraziamo le persone che ci hanno accolto, ma chiediamo agli Stati di aiutarci perché riusciamo andare all’estero per ricominciare a vivere e ricreare noi stessi. Non abbiamo un futuro. Siamo usciti da una casa per andare a vivere in una stanza usata come camera, come mensa… Anche la nostra anima è stanca. Non possiamo rimanere così. Abbiamo notizie che ci giungono dall’Iraq e ci comunicano che la situazione è sempre peggio e non pensiamo mai di ritornarci. Ho chiamato un amico di Mosul che ci ha detto che la mia casa ora è abitata da quelli di Daesh, vivono nelle nostre case. Siamo arrivati qui solo coi vestiti addosso. Una migrazione di persone fuggita in queste condizioni, in pochissimo tempo. È impossibile per i cristiani avere un futuro. Ci hanno cacciati dal nostro paese dopo tanti anni. Tutti i nostri sogni sono svaniti e abbiamo perso le nostre case. Le chiese sono esplose così come i resti dell’antichità. Come possiamo tornare? Il bambino che vede la violenza davanti ai suoi occhi che futuro può avere? Il cristianesimo non deve sparire dal Medio Oriente, ma se noi torniamo ci uccidono. Perché non posso andare in un paese che mi rispetta?”
“Vengo da Qaraqosh e ho 25 anni. Qui non facciamo nulla, pensiamo tutto il giorno. Andiamo in chiesa, stiamo qui, niente… Non c’è nient’altro che possiamo fare. Siamo qui da 10 mesi ed è sempre la stessa situazione, non abbiamo niente da fare. In Iraq andavo all’università di meccanica. Mi mancavano solo tre esami per finire e per prendere la mia laurea ma non ho potuto fare questi esami perché sono fuggito e ho interrotto gli studi. Non ho nessun progetto per il futuro, voglio solo vivere in una situazione di sicurezza.”
Le minoranze in Medio Oriente continuano ad essere minacciate e perseguitate. Non solo cristiani ma anche yazidi e tutti coloro che rendono “impuro” il califfato, siano essi minoranze religiose o etniche. La Giordania, in questo delicato contesto, rimane un’importante valvola di sfogo per i rifugiati provenienti dai confini limitrofi ed è la diretta testimone del peggioramento della crisi umanitaria dovuta ai conflitti in corso. Ma la monarchia hashemita non solo funge da rifugio per l’alto afflusso di profughi che, altrimenti, si riverserebbero in maniera ancora più evidente e drammatica sulle coste europee, ma la stabilità politica di cui gode la regione la rende un baluardo fondamentale contro il disordine regionale.
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