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Egitto: intervista alla regista Mai Iskander

di Igal Avidan (Qantara.de – 29/02/2012) Traduzione di Claudia Avolio

Il documentario di Mai Iskander “Parole di Testimonianza” (Words of Witness) ritrae la densità della rivoluzione sociale e politica in Egitto e la lotta per un nuovo ordine. Igal Avidan ha incontrato la giovane e pluripremiata regista egiziana (nata in America) in occasione della proiezione in anteprima del suo film a Berlino.

Come ti è venuta l’idea per “Parole di Testimonianza”?

Dal 2005 al 2008 ho svolto le riprese per un altro documentario dal titolo “Sogni d’immondizia”, per il quale ho seguito tre adolescenti che vivono in un villaggio alla periferia del Cairo. Gli abitanti raccolgono la spazzatura e in genere la riciclano. Di recente il governo egiziano ha assunto operai di multinazionali straniere per svolgere tale mansione. E’ solo un esempio di come i giovani in Egitto si trovino costantemente a confrontarsi con nuovi ostacoli e a lottare duramente per sopravvivere. Questo è ciò che ha fatto scoppiare la rivoluzione. Mi sono accorta che mi piace filmare storie personali entro un costesto politico più ampio. Ai tempi stavo pensando di fare un altro film concentrandomi sulle donne in Egitto, perché negli Stati Uniti molti volevano sapere com’è essere una donna in Medio Oriente. Dopo aver preso i primi contatti con la casa di produzione egiziana “Birthmark Films”, ecco che era scoppiata la rivoluzione.

Come hai incontrato la protagonista del tuo film, Heba Afify?

Sono arrivata al Cairo alcuni giorni prima della caduta di Mubarak e avevo già fatto casting a molte donne finché ho trovato Heba. Lavora per il giornale “Egypt Independent”, che è la versione inglese online di AlMasry AlYoum. Questa testata è letta soprattutto dall’upper class e da chi vive all’estero. Per questo i tipi di reportage sono forse più liberi che non nella versione araba. La famiglia di Heba è piuttosto benestante, sua madre ha una industria d’abbigliamento e suo padre lavora in banca. Heba è stata molto professionale, non le dava noia essere ripresa, era molto concentrata sul da farsi. Mi aveva fatto una buona impressione e così l’ho seguita in una manifestazione. Ma a un tratto l’ho persa tra la folla. L’ho cercata ovunque, e non sono riuscita a trovarla. Alla fine mi sono spinta nel bel mezzo della protesta e al centro di un capannello di gente c’era Heba che faceva foto. Da quel momento ho saputo dove avrei potuto sempre trovarla: proprio al centro dell’azione.

Ti sei mai messa in pericolo mentre filmavi?

Ho anche un passaporto egiziano, che portavo sempre con me perché non sembro affatto un’egiziana. Mia madre è della Repubblica Ceca e ci assomigliamo molto. La gente in piazza mi fermava spesso accusandomi d’essere un agente straniero. Altri invece erano solo molto curiosi su cosa stessi facendo.

Sei mai stata aggredita fisicamente?

No, mai. Certo avevo paura, ma c’era sempre un uomo con me, così mi sono sentita più a mio agio.

Sei andata con Heba in un villaggio in cui alcuni del luogo avevano appiccato il fuoco ad una chiesa. La gente non ti ha fatto avvicinare troppo all’edificio. Puoi descrivere la situazione?

Questo è stato ad Atfih, nel sud rurale. L’incendio alla chiesa aveva incitato alla violenza settaria in tutto il Cairo ed è stato il primo evento simile dopo la rivoluzione. Heba l’ha ripreso dal villaggio, e quando ci siamo avvicinate di più all’edificio non ci hanno fatto filmare. Episodi del genere sono successi tantissime volte. Circolavano un sacco di voci, paure, paranoia.

Com’è cambiata la psiche egiziana in seguito alle rivolte?

“Parole di Testimonianza” è uno sguardo intimo rivolto verso il popolo egiziano nel suo cambiamento dall’idea di essere governati all’idea di autogovernarsi. Quando dopo 18 giorni di proteste Mubarak, che era conosciuto come “Padre d’Egitto”, si è dimesso, gli egiziani non sapevano quale sarebbe stato il prossimo passo. Non avevano mai conosciuto la Democrazia. Perciò hanno guardato verso l’esercito affinché li proteggesse e li aiutasse nel periodo di transizione verso la Democrazia. Solo un mese dopo la rivoluzione, il popolo ha iniziato a rendersi conto di come l’esercito non fosse dalla loro parte. Heba è stata una dei primi reporters a riprendere gli abusi sui diritti umani che l’esercito ha inflitto ad alcuni di quelli che lo criticavano.

Secondo te qual è stato il punto di svolta psicologico per gli egiziani?

E’ stato il 9 marzo quando l’esercito per la prima volta ha disperso la folla e ha arrestato molti manifestanti, con le prime accuse di tortura che ne sono scaturite. E’ stato così simile a ciò che succedeva sotto Mubarak che sembrava non fosse cambiato proprio nulla realmente. Questo periodo è stato così significativo perché gli egiziani hanno sentito per la prima volta che dovevano guidare sé stessi e determinare il proprio futuro, che non potevano fare affidamento sul prossimo governante per essere aiutati nella transizione verso la Democrazia. Dovevano definire la propria Democrazia. E’ stata la prima volta che gli egiziani hanno sentito che lo avevano davvero, il proprio Paese. Questo è il cambiamento nella psiche che ho voluto catturare.

Questo cambiamento è in particolar modo vivido in una scena…

Mentre Heba sta mostrando a sua sorella le testimonianze di tortura nei crimini che l’esercito ha commesso contro i civili, la madre entra nella stanza e chiede: “Ma chi sarà ora nostro padre?”. E Heba le risponde: “Siamo noi che dobbiamo cominciare a prenderci cura di noi stessi e condurre il nostro Paese verso la Democrazia”.

Alle manifestazioni si sentono proclami come “Allah è grande” e “Vogliamo la Democrazia”. Si possono esaudire entrambe le richieste, o si contraddicono l’un l’altra?

Se Religione e Democrazia possano andare di pari passo? Questa è davvero una domanda difficile, visto che la Democrazia non è la stessa cosa in ogni parte del mondo. Come americani abbiamo libertà di parola e di stampa, che diamo per scontate ma per le quali gli egiziani stanno ora lottando. Al contempo come americani non scuotiamo più il sistema. In Egitto ho sentito che stava accadendo qualcosa simile a ciò che è accaduto negli anni ’60 negli Stati Uniti, quando ognuno era politicamente attivo. Al Cairo mi sono  resa conto che la Democrazia può assumere forme diverse che comprendono anche la religione.

Come mai il tuo film si chiude con una urna elettorale nel corso delle elezioni parlamentari?

Volevo chiuderlo con questa immagine perché è stato allora che gli egiziani hanno sentito di dover prendere in mano le redini del proprio futuro. Ma la loro strada per la Democrazia sarà una strada impervia e rocciosa.