Di Maxime Guain. Hürriyet Daily News (05/01/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.
Dentro e fuori la Turchia si intensifica la campagna a favore dell’apertura del confine turco-armeno, una richiesta rivolta solo al governo di Ankara, come se questo fosse l’unica parte in causa. Un fatto che insieme alle recenti scaramucce diplomatiche attorno alle commemorazioni del centenario del genocidio armeno riapre una questione complessa e delicata senza offrire prospettive per una soluzione razionale e ragionevole.
Due gli episodi alla base dell’ultima querelle diplomatica tra Ankara ed Erevan. A gennaio il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha invitato il suo omologo armeno Serge Sarkisian alle commemorazioni del centenario della battaglia di Gallipoli (Çanakkale), ricevendo in risposta un deciso diniego. Un suo diritto certo, ma la sua lettera di risposta era aggressiva e focalizzata esclusivamente sulle sofferenze (indubbie) degli armeni. Nessuno può pretendere dalla maggioranza dei turchi che neghino i crimini di guerra commessi dai volontari armeni dell’esercito russo, mesi prima della deportazione di armeni del 1915-16, secondo episodio del genocidio armeno (il primo è relativo alla campagna contro gli armeni del sultano Abdülhamid II tra il 1894 e il 1896). Similmente nessuno dovrebbe dimenticare che molti storici turchi si sono schierati contro la linea negazionista del genocidio armeno di Hakan Yavuz (docente di scienze politiche all’Università dello Utah), da Ankara purtroppo spesso sbandierata come linea ufficiale.
Il secondo incidente si è verificato durante la visita a Erevan del giornalista turco Hasan Cemal, che ha dato prova di coraggio e onestà intellettuale. Anzitutto quando ha pubblicato il saggio 1915. Il genocidio degli armeni, in cui ha apertamente ammesso l’esistenza di quell’oscura pagina della storia turca (tra i principali organizzatori del genocidio armeno c’era peraltro il nonno di Cemal, Cemal Paşa) porgendo le sue scuse. Il libro era una risposta all’assassinio nel 2007 del suo amico e collega Hrant Dink. Vale la pena osservare che finora la pista dei poteri occulti turchi (tra cui spicca l’organizzazione chiamata Ergenekon) non è stata ancora esclusa e l’omicidio di Dink potrebbe essere collegato a quello di don Andrea Santoro. Cemal nel 2013, è stato costretto a dimettersi dalla redazione del quotidiano turco Milliyet, per le sue interviste a esponenti di spicco del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), tra cui Abdullah Öcalan e Murat Karaylan, e per la sua pubblicazione di un rapporto della visita di Öcalan al parlamento turco.
A Erevan Cemal è stato duramente criticato, per aver definito terroristica l’organizzazione marxista-leninista armena ASALA (affermazione peraltro più o meno condivisibile) e per aver esplicitamente parlato dell’occupazione armena dell’Azerbaijan tra il 1992 e il 1994. Neanche i nazionalisti armeni della diaspora, come l’esponente di ASALA in Francia Jean-Marc “Ara” Toranian, avevano mai osato attaccare Cemal come hanno fatto i nazionalisti armeni in patria. A parte l’indubbia necessità per Ankara di abbandonare definitivamente la posizione negazionista sul genocidio armeno, a Erevan affiorano talvolta fenomeni altrettanto inquietanti. Come il richiamo esplicito, da parte del Partito Repubblicano al governo, agli scritti di Garegin Nzhdeh, colpevole della pulizia etnica ai danni degli Azeri nel 1918-20, che ha elaborato la teoria di una “religione di razza” e all’inizio della Seconda Guerra Mondiale si è rifugiato alla corte nazista. Nel 2013 la memoria di Nzhdeh è stata celebrata all’Università di Erevan, dove gli è stata dedicata una statua.
A risolvere una volta per tutte la questione turco-armena non sarà né l’apertura del confine, né inviti a celebrazioni e risposte irritate. Un primo passo sarebbe invece la liberazione individuale da posizioni monolitiche e stucchevoli. Di certo aggredire uno dei pochi turchi che ha avuto il coraggio di scusarsi pubblicamente per il genocidio armeno (in barba alla legge del 2005 che punisce qualsiasi insulto all’identità nazionale turca) non ha rappresentato un passo avanti.
Maxime Guain è ricercatore al Centro di Studi Eurasiatici (Avim) e dottorando al dipartimento di storia della Middle East University.