Di Cengiz Aktar. Al-Jazeera (23/04/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.
In copertina, il monumento commemorativo del genocidio armeno, situato sulla collina Tsitsernakaberd, a Yerevan.
“Se guardiamo la storia europea… Dove sono gli Aborigeni? Dove sono i Nativi Americani? Dove sono molte tribù africane? Noi non abbiamo mai avuto ghetti, i ghetti sono un prodotto europeo. Prima la discriminazione etnica, poi il genocidio”. Questa è stata la risposta di Ankara al parere favorevole del Parlamento europeo sul riconoscimento del genocidio armeno, a pochi giorni dalle commemorazioni del suo centenario, il 24 aprile. Una reazione che ricorda quella dell’allora primo ministro e attuale presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, nel 2011, quando il parlamento francese aveva votato una legge che definiva reato negare il genocidio armeno. Erdoğan aveva invitato Parigi a fare i conti con il proprio passato, ricordando il massacro del 15% della popolazione algerina a partire dal 1945 (l’8 maggio sarà il sessantenario dei massacri di Sétif, Guelma e Serrata). Ciascuno dunque ha i suoi conti da fare con la storia ma preferisce farli con la storia degli altri.
A scatenare la reazione di Ankara questa volta sono state le parole del papa, che lo scorso 12 aprile ha definito i massacri degli armeni del 1915-16 in un Impero Ottomano sul viale del tramonto “il primo genocidio del XX secolo”. Dichiarazioni che di certo non grondavano di senso del momento opportuno (ora che è alto il rischio di generalizzazioni riduttive delle differenze settarie e confessionali), soprattutto perché pronunciate durante una cerimonia pubblica nella Basilica di San Pietro, in presenza del presidente armeno Serzh Sargsyan. Pochi giorni dopo, il Parlamento europeo ha apprezzato le parole del pontefice, invitando la Turchia a riconoscere il genocidio armeno e a spianare la via alla riconciliazione. Al di là delle considerazioni su quanto sia opportuna la decisione del governo turco di anticipare le celebrazioni del centenario della battaglia di Gallipoli (1915) dal 25 aprile al 24, i commenti dei suoi più alti rappresentanti sono apparsi sproporzionati e anti-diplomatici.
Il leitmotiv dell’atteggiamento di Ankara è l’esortazione, più o meno ricca di esempi, a fare i conti ciascuno con il proprio passato. Un esempio lampante è costituito dalle parole del primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, secondo il quale “il Parlamento europeo non dovrebbe prendere decisioni che potrebbero sfociare in odio nei confronti di una determinata religione o gruppo etnico se vuole contribuire alla pace”. “Siamo pronti ad analizzare tutto”, ha aggiunto, “ma non permetteremo che la Turchia venga ricattata a colpi di dibattiti storici”. In altri termini la questione di fondo è sempre la stessa: perché nessuno ricorda i massacri dei palestinesi ad opera di Israele, quelli degli yemeniti ad opera della coalizione a guida Saudita, o meglio, perché la comunità internazionale mantiene la sua memoria selettiva che non fa che istigare o alimentare conflitti?
Il Parlamento europeo in effetti non ha ricordato che in molte città turche i massacri degli armeni del 1915-16 vengono già commemorati ogni anno come “genocidio”, malgrado la linea del governo centrale. La strategia dei due pesi e due misure, che finora ha prodotto solo disastri, ha fatto “perdere credibilità” alle istituzioni internazionali, europee e non (come le Nazioni Unite), come ha sottolineato il vice primo ministro turco Yalçın Akdoğan. Una posizione indifendibile, che è riuscita a unire le forze politiche turche (in questo periodo divise dalle controversie pre-elettorali e dal processo di pace con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, PKK) in un coro di condanne.
Finché ciascun paese non ammetterà i propri crimini, presenti e passati, non ci sarà confronto dialettico autentico ma solo scontri sterili, dominati solo dalla mania dei distinguo.
Cengiz Aktar è ricercatore all’Istanbul Policy Center, ex funzionario delle Nazioni Unite.
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