Anadolu (26/03/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.
Tra i vari testi dello scrittore turco Hrant Dink, ucciso nel 2007, c’è un libro il cui titolo potrebbe sintetizzare la questione turco-armena, “due popoli vicini, due vicini lontani”. Rigidità più o meno forzate dei capi di stato a parte, secondo Dink sarebbe più produttivo avere come obiettivo aiutare l’Armenia di oggi e il suo popolo che ridurre la delicata questione alle campagne per il riconoscimento internazionale di un genocidio che risale a più di un secolo fa. Una causa giusta e condivisibile, ma che non può costituire l’unica base delle relazioni tra due popoli che avrebbero tutto da guadagnare se decidessero di ricostruire i loro antichi legami. Anche in termini di rispetto dei diritti fondamentali.
Tra i paradossi della questione turco-armena c’è infatti la storia di Hovhannes Avagyan, nato ad Atene nel 1920, quando dopo il collasso dell’Impero Ottomano l’Armenia entrava nell’Unione Sovietica. Attualmente vive in Armenia e, nonostante in famiglia si parli turco da sempre, la Turchia non l’ha mai vista. I suoi avi vengono dall’Anatolia, suo nonno Agop era di Ankara e faceva il panettiere per l’esercito ottomano durante la campagna di Gallipoli (Gelibolu) del 1915. Intanto padre e zio di Hovhannes, rimasti ad Ankara, dopo la morte della madre (nata nella provincia occidentale di Afyon) vennero trasferiti in un orfanotrofio greco finanziato dagli Stati Uniti. Terminato il suo servizio nell’esercito, Agop riuscì a ritrovarli e la famiglia andò a vivere in una tendopoli di Atene, con migliaia di altri Armeni. Qualche anno più tardi lo zio di Hovhannes, dopo il matrimonio, si trasferì in Francia, mentre il padre Melkon rimase con la moglie nella capitale greca, dove Agop comprò un appezzamento di terra e costruì una fabbrica di mattoni.
L’attività andava a gonfie vele, al punto che quando nel 1945 l’Unione Sovietica inviò due navi per “riportare” gli armeni ateniesi che lo avessero voluto nella loro terra d’origine, la famiglia Avagyan preferì restare. A comprare i loro mattoni tuttavia erano essenzialmente gli Armeni locali, il cui esodo provocò gravi perdite alla fabbrica degli Avavgyan. Un motivo valido per imbarcarsi due anni dopo alla volta dell’Armenia con altri 2700 connazionali. Stabilitisi a Yerevan, costruirono un panificio, dove Hovhannes lavorava come fattorino. La famiglia di sua moglie Pertshuhi invece, che parla fluentemente turco e viene dalla provincia di Adana, arrivò in Armenia passando per il Libano. Storie intricate, ma con una riflessione di fondo: il “ritorno”, spiega Hovhannes, non è stato il lieto fine che si aspettavano, malgrado il desiderio di molti di loro di vedere l’Armenia.
In casa si parla ancora turco con accento anatolico e dell’Anatolia si sono conservate la cultura e le abitudini alimentari. All’inizio gli armeni arrivati dalla Turchia venivano chiamati “ahpar”, che significa “fratelli” ma con una connotazione di emarginazione, e le loro usanze venivano guardate con curiosità e perplessità. Fratelli diversi insomma. Di contro né Hovhannes né la sua famiglia hanno mai odiato il popolo turco e i suoi costumi, anzi, hanno sempre guardato canali TV turchi e ora sentono la mancanza del tradizionale tahini halva, dolce comune in Anatolia e Grecia. “E’ difficile dire qualcosa del popolo turco senza mai essere stati in Turchia”, commenta Pertshuhi, “tuttavia posso dire che la gente da quelle parti è molto cordiale e ospitale, proprio come gli armeni”. Per questo la moglie di Hovhannes spera che un giorno i due popoli possano vivere “a porte aperte” (i confini tra i due paesi sono chiusi dal 1993) e in pace. “Veniamo dalla Turchia” conclude Hovhannes, “non l’ho mai dimenticato”.