Settarismo comunitario e politico in Siria

Di Azzam Amin. Al-Hayat (12/06/2015). Traduzione e sintesi Alessandro Balduzzi.

Le discussioni sul settarismo in Siria suscitano sempre più interesse, spesso riproponendo la contrapposizione tra coloro che accusano il regime di “alawismo” e quelli che respingono le accuse, oppure tra chi attribuisce alla rivoluzione un carattere “sunnita” e chi altrettanto recisamente lo nega. Altrettanto accesa è la diatriba tra chi guarda al settarismo come a un dato di fatto, ritenendo necessario parlarne per sconfiggerlo, e chi ne nega addirittura l’esistenza.

Non è ovviamente pensabile di analizzare tutti i punti di vista in merito, vista la miriade di articoli di giornale, siti internet e dibattiti sul tema. Tema che, a causa della sua sensibilità e della presenza costante nell’immaginario collettivo, è divenuto motivo di preoccupazione per molti uomini di cultura e studiosi.

Da due domande non possiamo tuttavia prescindere laddove vogliamo discutere di settarismo. Innanzitutto, dopo tutto questo parlarne, siamo sicuri di aver ben chiaro cosa si inteda con questo termine? E in secondo luogo, i partecipanti al dibattito, tra cui numerosi accademici, hanno tutti in mente il medesimo fenomeno?

Dobbiamo constatare che finora non si è raggiunta una definizione chiara e univoca, a fronte della confusione operata tra il concetto di settarismo e quello di comunità, così come tra il settarismo sociale e quello politico. Ed è forse proprio dietro questa ambiguità che si cela l’incomprensione tra chi nega e chi asserisce l’esistenza di una “questione settarismo”.

Se definissimo il settarismo politico come espressione politica della religione, qualsiasi istanza politica delle comunità corrisponderebbe alla definizione di Barhan Ghaliun nel suo libro “La questione del settarismo e il problema delle minoranze”, secondo il quale il settarismo non è un’invenzione basata sul nulla, bensì, come descritto in un articolo di Azmii Bashara, ben radicata in un sostrato socioculturale e in una mentalità condivisa.

Il settarismo sociale è una forma di fanatismo che va ben scissa dal concetto di comunità. Quest’ultima è, infatti, un istituto sociale avente una propria specifica connotazione antecedente l’affermarsi dello Stato-nazione contemporaneo. L’appartenza a un gruppo (e, si badi bene, non il sentimento di appartenenza) è una condizione oggettiva impostaci dalle circostanze, dal fatto che si sia nati in un famiglia sunnita, sciita, cristiana, etc. Quanto al settarismo, invece, esso è un forte sentimento di appartenenza a un gruppo, talvolta accompagnato, o sostituito, dal rifiuto per una determinata comunità, il che spesso implica pregiudizi negativi e discriminazioni.

Il settarismo sociale si alimenta di tre fattori. Il primo è quello cognitivo, costituito dalle opinioni e dalle rappresentazioni negative aventi come oggetto i membri di un gruppo. Il secondo, invece, è emozionale, ovverosia dato da sentimenti di odio, amore, timore, etc. Il terzo, infine, è di natura comportamentale, e rappresenta la traduzione sul piano relazionale dei due precedenti fattori.

Tipicamente, l’elemento comportamentale si declina in cinque gradi, dal più lieve al più pesante: il primo è quello dell’espressione verbale attraverso, ad esempio, barzellette a sfondo razzista; il secondo implica l’evitare deliberatamente contatti con i membri della comunità discriminata; il terzo è l’esclusione, che giunge alla negazione di alcuni diritti agli individui vittime del settarismo, come il diritto al lavoro o alla partecipazione politica; il quarto grado è quello dell’aggressione fisica, dalla tortura al furto fino addirittura all’uccisione; l’ultimo livello, il più grave, è quello del genocidio, ossia dello stermino sistematico dei componenti del gruppo oggetto dell’odio settario.

Alla luce di quanto detto, non è forse il caso di dire che il dibattito sul settarismo è inquinato, alla base, da ragioni puramente ideologiche e politiche? Purtroppo, infatti, spesso sono queste a impedire un’analisi lucida del fenomeno, senza dubbio da considerare uno dei più gravi di cui è vittima il Medio Oriente. Evitare di parlarne, come molti intellettuali rifiutano di fare, non significa altro che rifuggire all’evidenza, come un medico che dica al paziente moribondo che è perfettamente sano.

Non ha senso affrontare il settarismo obnubilati da romantiche idee di “nazione”, limitandolo a un fenomeno accidentale in Siria, nato con la rivoluzione e imputabile a un complotto delle potenze straniere. Necessario è invece esaminarlo in maniera scientifica, individuandone le cause e i rapporti con l’economia, la politica, la società e la cultura, con l’obiettivo non di accusare questa o quella comunità, bensì di trovare soluzioni efficaci che portino alla sua scomparsa.

Azzam Amin è editorialista per il quotidiano panarabo al-Hayat.

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1 commento

  1. tiziano
    15 Giugno 2015

    La Siria era il paese meno settario che ho trovato nei miei viaggi.
    Parlarne oggi in questi termini, come nell’articolo, mi sa di operazione per screditare il regime di Assad e per sdoganare implicitamente i tagliagole di Daesh. Operazione che non mi piace.

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