Un anno di Daesh: ricordando la caduta di Mosul

L’opinione di Al-Quds. Al-Quds al-Arabi (10/06/2015). Traduzione e sintesi di Alessandro Balduzzi.

Con ieri (9 giugno) è passato ben un anno dalla caduta di Mosul nelle mani del sedicente ‘Stato Islamico’. Un intero anno, tuttavia, non è stato sufficiente al presidente degli Stati Uniti per elaborare una strategia compiuta ed efficace per combattere quest’organizzazione terroristica, alla quale, incurante dei raid della cosiddetta “coalizione internazionale”, il medesimo periodo è largamente bastato a imporre il proprio controllo sul 40% del territorio iracheno, sul 50% della Siria e sulla città libica di Sirte, per non parlare delle cellule più o meno attive presenti in Giordania, Yemen, Tunisia, Libano, Europa, e operative addirittura negli Stati Uniti stessi.

Daesh (ISIS) ha inoltre lasciato dietro di sé decine di migliaia di vittime, milioni di profughi e rifugiati, la distruzione di reperti archeologici dal valore incommensurabile e di una lunga serie di templi, chiese e moschee tra le più imponenti e antiche al mondo; e, come se non bastasse, a ciò si aggiunge il fatto che le milizie islamiste si sono assestate a poca distanza da Baghdad e da Tripoli, oltre ad avere occupato la siriana Palmira, le cui vestigia rischiano di fare la fine dei tesori dell’Iraq settentrionale.

Un anno intero che ha visto gli arabi vivere uno dei periodi più scuri della propria storia mentre la cosiddetta “comunità internazionale” ignorava il grido di soccorso levatosi dalle masse di profughi e chiudeva gli occhi di fronte a crimini di guerra, stermini sistematici e azioni finalizzate a cancellare ogni traccia della presenza umana. Un anno intero degli attacchi decisi da Obama, ma senza alcuna “strategia coordinata”, come la definirono sette mesi fa, senza alcuna “strategia compiuta”, come l’hanno chiamata due giorni or sono al G7 in Baviera, o “senza strategia alcuna” secondo molti combattenti sul terreno.

Altrimenti in che modo Daesh sarebbe riuscito a estendersi a tal punto sotto il controllo degli aerei e dei droni della “coalizione”? E come è possibile che almeno tre quarti degli attacchi non abbiano raggiunto suoi obiettivi O ancora, per quale motivo Obama si è accorto improvvisamente che i centri d’addestramento americani da settimane non ospitano alcuna recluta irachena? E perché, dopo la caduta di Ramadi, il primo ministro iracheno Haidar al-Abadi è immediatamente volato a Mosca per chiedere armi se Obama si era già impegnato a fornirle all’esercito di Baghdad? E infine, come hanno ottenuto i terroristi islamici sostegno logistico e finanziario, oltre alle migliaia di giovani provenienti da un centinaio di paesi arruolatisi nelle loro fila?

Ciononostante, e malgrado attacchi terroristici in Occidente ed esecuzioni a sangue freddo di europei, americani e giapponesi, Obama continua a sostenere la linea della “strategia completa” o addirittura del “minimo impatto”: ma quando la potrà mai realizzare vista la fine del suo mandato alle porte?

O forse il piano di Obama consiste proprio nell’assenza di una qualsivoglia strategia e nell’ignorare lo Daesh. Così facendo alimenterebbe il conflitto settario endemico in Medio Oriente e asseconderebbe quello che è forse il principale interesse israelo-americano nella regione, ovvero la sua frammentazione e il controllo sulla stessa. Un punto fermo, comunque, è la debolezza e il sostanziale fallimento della politica estera di Obama, a partire dal servilismo nei confronti del criminale di guerra Netanyahu, nonostante la promessa di trovare una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese, fino a questa sua imbarazzante “assenza di strategia”.

Chi attende da Obama la sconfitta delle organizzazioni terroristiche può quindi mettersi il cuore in pace: quest’anno di Daesh ci ha dimostrato come nessuno sia immune dal germe del terrorismo, lasciandoci presagire un nuovo anno ancora peggiore. E in una tale prospettiva l’idea che Obama ha di “strategia” non può che destare ancora più rabbia.

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