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Le scelte della Turchia

Erdoğan Turchia

Di Semih İdiz. Hurriyet Daily News (11/09/2014). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Stati Uniti e Gran Bretagna cercano di riunire contro il nuovo nemico comune, lo Stato islamico, una coalizione che fornisca all’esercito iracheno armi e consulenze militari. Data la complessità della situazione, nella nuova alleanza non possono mancare le potenze regionali, in primo luogo la Turchia. Questo è stato il tema centrale sia del vertice Nato della scorsa settimana in Galles, che degli ultimi colloqui del segretario alla Difesa americano Chuck Hagel con le massime autorità di Ankara. Con buona probabilità di questo discuteranno anche i convitati al vertice di due giorni previsto in Arabia Saudita, ovvero i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Egitto, Giordania, Turchia e naturalmente USA.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan finora ha manifestato cautela, soprattutto per non peggiorare la situazione dei 49 ostaggi turchi (tra i quali il console generale di Mosul) ancora nelle mani di presunti miliziani dell’ISIS. Ci sono tuttavia anche fattori contingenti ad aver influito sulla scelta di Erdogan, che in fondo non ha fatto altro che mantenersi nel solco della politica estera di Ankara, estremamente attenta agli equilibri in campo. Anzitutto, dopo i consensi ottenuti con la Mavi Marmara nella Freedom Flotilla e con le posizioni prese a proposito delle rivolte nel mondo arabo, sarebbe spiacevole essere suscettibili di critica per aver partecipato a una coalizione contro un Paese islamico senza approvazione da parte delle Nazioni Unite.

Inoltre, la Turchia sarebbe il Paese più esposto ai cartelli del jihad, data la prossimità del suo territorio con Iraq e Siria. Infine, non potrebbe mancare la questione curda. L’esercito turco si troverebbe a combattere fianco a fianco con i combattenti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che la Turchia, come gli Stati Uniti e vari Paesi europei, considerano terroristi. Al contrario dei suoi alleati tuttavia, Ankara guarda con preoccupazione anche l’invio di armi ai peshmerga, poiché sa che queste potrebbero essere già arrivate o arrivare presto nelle mani ai combattenti del Pkk. La linea più semplice da gestire sarebbe dunque quella di evitare un coinvolgimento diretto, nell’attesa che altri Paesi si facciano avanti, e nel frattempo tenere gli occhi ben aperti sui movimenti del Pkk. Un’altra possibilità, per accontentare gli alleati occidentali senza suscitare irritazione nei Paesi arabi (governi e opinione pubblica), sarebbe sostenere la loro coalizione da dietro le quinte.

In entrambi i casi, le conseguenze per la Turchia sarebbero molto gravi in termini di peso geopolitico. Ankara perderebbe infatti sia la credibilità di cui gode in Europa e Stati Uniti che la sua influenza nella regione, soprattutto se Washington riesce a convincere Arabia Saudita, Egitto, Giordania e Qatar a impegnarsi direttamente contro l’ISIS. Senza considerare le conseguenze sullo scenario politico turco. Erdogan e il suo partito, che da anni celebrano il peso della Turchia nelle relazioni internazionali e se ne attribuiscono il merito, sarebbero considerati i principali responsabili di questa sconfitta.

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