Di Julia Tierney. Your Middle East (26/02/2015). Traduzione e sintesi di Claudia Avolio.
In copertina un’immagine di The Syria Campaign: “Un civile è un civile” (foto originale di Abd Doumany)
Nei cuori di coloro che, come me, sono contro un intervento militare in Siria, risiede una contraddizione. Diffidiamo dagli attacchi aerei contro Daesh (ISIS), perché stanno uccidendo civili che vivono sotto il loro regime di terrore. Ma mentre le strade di Douma (sobborghi di Damasco) sotto la pioggia si sono macchiate di rosso per il sangue causato dai bombardamenti di Assad, non posso che mettere in dubbio l’ipocrisia – nelle parole di un attivista siriano – del proteggere Kobane ma lasciare che Aleppo bruci, lanciare cibo dal cielo agli Yazidi nel Sinjar ma lasciar soffocare a morte col gas sarin le persone a Damasco.
Con gli attacchi aerei contro Daesh che subiscono un’escalation, non siamo indirettamente allineati con Assad che ha le mani sporche di molto più sangue? L’intervento militare è l’unica opzione per rovesciare il suo regime? Dunque è possibile distruggere la violenza con altra violenza? Voci da dentro la Siria hanno a lungo indicato il problema del non fare nulla mentre Assad massacra il suo stesso popolo. “Uccidere bambini ed anziani coi barili-bomba, usare gas velenosi è orrendo tanto quanto il dare alle fiamme e le decapitazioni perpetrate dai militanti di Daesh”, ha detto il capo della Coalizione Nazionale Siriana dopo settimane di bombardamenti giornalieri su Douma. Proprio qui, un attivista anti-regime ha di recente allestito una scena in cui bambini vestiti di arancione con una fiaccola accesa in mano erano dentro una gabbia di ferro.
Lo ha fatto nel disperato sforzo di spostare l’attenzione del mondo dalla brutalità di Daesh verso la violenza di Assad. Il mondo ha messo in guardia il presidente dopo l’aver soffocato migliaia di persone con le armi chimiche, così lui ha fatto ricorso a un’altra tattica: “Si tratta dell’arma della fame”, ha scritto un sopravvissuto al gas sarin, “Assad ci sta lentamente facendo morire di fame”. Eppure la risposta della comunità internazionale sono stati attacchi aerei contro Daesh e offerte di cessate-il-fuoco ad Assad. Nelle parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish, “il terrore non spiana mai la strada alla giustizia ma conduce verso la via più breve per l’inferno”. Che l’intervento militare si possa considerare umanitario o meno, quel che è certo è che la violenza che stiamo infliggendo in Siria non ha senso.
Daesh si è insediato in città come Raqqa (Siria) e Mosul (Iraq) su cui la coalizione internazionale ha diretto 16 mila attacchi. Secondo il professor Joshua Landis, con gli attacchi aerei si può far retrocedere Daesh ma non distruggerlo. Ci ritroviamo piuttosto impegnati in un “urbicidio, o la deliberata demolizione o uccisione della città”. L’illusione che gli attacchi aerei possano al contempo sconfiggere il nemico e proteggere i civili è impossibile nella guerra urbana, soprattutto se prendere di mira infrastrutture essenziali uccide tanto quanto i bombardamenti, se non di più.
Hanna Arendt ha affermato: “La pratica della violenza, come ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è un mondo più violento”. Sono d’accordo, ma resto incerta riguardo cosa dovremmo fare per la violenza che sta già distruggendo il nostro mondo.
Julia Tierney è dottoranda all’Università di Berkeley (California) e attualmente fa ricerca a Beirut.