Articolo di Katia Cerratti
Dopo lo scandalo per la morte del giornalista Jamal Khashoggi all’interno del consolato saudita in Turchia il 2 ottobre scorso e la recente notizia rivelata dal New York Times che attribuisce al regno del principe ereditario Mohammed bin Salman il reclutamento di bambini soldato sfuggiti alla guerra in Darfur e acquistati per 10mila dollari per combattere nello Yemen, una ulteriore vergogna emerge dalla testimonianza della giornalista saudita Reem Soulaiman, sulle torture inflitte in carcere alle attiviste femministe arrestate nei mesi scorsi. Reem, attualmente rifugiatasi nei Paesi Bassi, ha raccontato attraverso una serie di tweet, i suoi due giorni di detenzione a causa di articoli da lei scritti sulle attiviste saudite. “Sono Reem Sulaiman – racconta- e ho scritto per i giornali Mecca, al-Wiam e Anha. Voglio parlarvi della repressione e dei maltrattamenti a cui sono stata sottoposta e che mi hanno portato a fuggire dall’Arabia Saudita e a rifugiarmi in Olanda”.
Reem comincia così a raccontare della telefonata ricevuta da un assistente di Saud al-Qahtani, consigliere della corte reale saudita, presumibilmente coinvolto nell’affaire Khashoggi, dal quale riceve l’ordine perentorio di smettere di scrivere articoli, altrimenti ci sarebbero state pesanti conseguenze e persino la prigione. Reem rimane scioccata ma è costretta a sottostare agli ordini. Dopo una settimana, degli uomini armati fanno irruzione nella sua casa e l’arrestano. Condotta in un luogo sconosciuto, racconta di essere stata insultata, sottoposta a torture piscologiche e minacce di abusi per due giorni interi. Le viene intimato di non raccontare a nessuno quanto accaduto e di smettere di scrivere. Per Reem sono i giorni più difficili della sua vita. Non ha altra scelta, deve lasciare il paese. Si rifugia cosi in Olanda, dove vive attualmente. “Francamente, temevo di essere sottoposta a ciò cui erano state sottoposte le donne arrestate, come la tortura, la sparizione forzata e persino lo stupro”, racconta, aggiungendo un’amara riflessione e un atto di accusa: “Il mio cuore è con il mio paese. Il mio cuore è con i miei genitori che potrebbero essere danneggiati perché ho lasciato il paese e rivelato ciò che mi è successo. Il mio cuore è con gli attivisti, uomini e donne, che sono ingiustamente imprigionati, torturati, molestati e violati. È deplorevole che il paese sia stato trasformato dal suo sovrano da un abbraccio sicuro per i suoi figli e figlie in un incendio infernale per loro.”
Nel frattempo i suoi amici l’hanno abbandonata, rea di aver raccontato quanto accaduto e il giornale per cui scriveva, Anha, ha cancellato i suoi articoli.
Difficile per la giovane giornalista, cancellare le immagini che hanno segnato la sua prigionia, quelle di giovani attiviste arrestate e minacciate di molestie sessuali, frustate, sottoposte a scosse elettriche e torturate per ottenere una confessione:“Quello che pensavo di più all’epoca era: sopporto o mi suicido. Sì, ho pensato al suicidio più di una volta a causa degli orrori che ho visto”.
Reem Soulaiman ha documentato ogni attimo di quei giorni bui e ne realizzerà un documentario in collaborazione con la CNN o con la BBC.
L’articolo che ha incriminato Reem, sembra essere stato quello dal titolo “L’intellettuale e la crisi tra Arabia Saudita e Qatar” in cui la giornalista invitava a razionalizzare il discorso sui media nei primi giorni della crisi del Golfo, quando gli abusi e le calunnie erano in aumento.
A questo punto del suo racconto, le accuse nei confronti della casa regnante si fanno sempre più forti ed esplicite:“Proprio come hanno negato di aver commesso il loro atto contro Jamal Khashoggi, e poi la verità è venuta fuori, e proprio mentre negavano di sottoporre le donne attiviste a torture e molestie sessuali, e poi la verità è apparsa, oggi stanno cercando di ripetere le loro asserzioni ridicole che sostengono che io non sono stata oppressa e offesa da Saud al-Qahtani e dai suoi scagnozzi. Il mondo intero conosce la vostra vera natura, voi padroni dell’oppressione e della repressione”.
Durante l’interrogatorio, Reem viene sottoposta a domande di ogni genere:” “Cos’è questo articolo? Perché hai scritto questi tweet? Qual è il tuo rapporto con le donne attiviste al-Mani, al-Hathlul e al-Nafnajan “. Le viene chiesto inoltre di fornire i nomi di tutti gli intellettuali che conosceva e del suo rapporto con gli sceicchi.
Ma Reem racconta che ciò che l’ha sconvolta maggiormente, è stato il momento in cui sua madre ha ricevuto la telefonata di Saud al-Qathani che le comunicava che sua figlia stava bene e in un posto “appropriato”.
“Poi le disse – racconta – uno di voi scriva una “testimonianza” per dire che Reem era solo una giovane donna zelante che scrive ciò che ha in mente e non ha alcun legame con le donne attiviste o con i difensori dei diritti.” Chiese loro di consegnargli quella testimonianza per agire su di essa più tardi.T
Reem dunque, fugge dall’Arabia Saudita, entra in Olanda con un visto per studenti e chiede facilmente asilo politico in quanto i funzionari addetti sono perfettamente a conoscenza delle restrizioni saudite imposte agli attivisti donne. Promette inoltre di dare informazioni e aiutare quegli attivisti che desiderino lasciare il paese.
Reem pensava che il suo fosse un paese giusto e invece ha fatto a pezzi i suoi sogni: “Sono una cittadina che non ha nulla in mano se non una penna. Scrivere è tutta la mia vita. È così che affronto le preoccupazioni della gente comune e le difendo […] Ho lasciato il paese ma il mio cuore è rimasto lì, con le donne detenute, con i miei compagni di prigione”.
I diritti delle donne in Arabia Saudita sono calpestati da sempre, non solo in occasione di una partita di calcio internazionale.
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