“Iran, 1979. La Rivoluzione, la Repubblica islamica, la guerra con l’Iraq” di Antonello Sacchetti

Iran 1979 Sacchetti

La storia dell’Iran non comincia certo nel 1979, ma la rivoluzione, con il suo prezzo altissimo di sangue e di verità, con le lacerazioni insanabili e con le ferite solo in parte ricomposte, è ormai una parte fondamentale e imprescindibile della storia e dell’identità dell’Iran”.

Il volume, di recentissima pubblicazione, “Iran, 1979. La Rivoluzione, la Repubblica islamica e la guerra con l’Iraq” di Antonello Sacchetti per Infinito Edizioni, ha il pregio di raccontarci quella Rivoluzione in un’ottica retrospettiva che mette a fuoco le ragioni politiche, sociali ed economiche che portarono l’Iran dello scià alla Repubblica degli Ayatollah.

La lunga strada verso la rivoluzione inizia dagli inizi degli anni ’50, con il golpe contro Mossadeq e l’avvio di una sistematica politica di repressione di tutte le voci di dissenso nei confronti dello scià. In quegli anni tutte le organizzazioni pacifiste e i movimenti di base, compresi i sindacati, vennero annientati. La stessa “Rivoluzione bianca” degli inizi degli anni ’60, che doveva modernizzare il paese, di fatto si accompagnò ad una crescente politica repressiva da parte di Pahlavi. Lo slogan degli studenti dell’università di Teheran che protestavano contro lo Scià era proprio “Sì alla riforma agraria, no alla dittatura dello scià”. E il 3 giugno 1963 Ruhoallah Khomeini in un sermone tenuto nella città santa di Qom inveisce contro lo scià e il suo “regime tirannico nemico dell’Islam”. A questa invettiva seguiranno scontri e disordini, da più parti considerati la prova generale della rivoluzione del 1979.

Massud, un iraniano che vive in Italia dal 1969 intervistato da Sacchetti, rende così la sua testimonianza sulle cause che portarono alla Rivoluzione Khomeinista “Quella dello scià era la dittatura personale di un regnante che si credeva Dio in terra. La Rivoluzione bianca per noi era qualcosa di calato dall’alto, che non avrebbe assolutamente risolto i problemi reali del Paese. Ogni voce di dissenso era negata”. Parole forti, che ben disegnano il quadro socio-politico di quegli anni, nonché il sentimento diffuso di forte malcontento fra la popolazione che indusse molti iraniani, come appunto Massud, a lasciare il paese. 

Come ben rappresentato nel volume, non si può tuttavia negare che negli anni fra il 1963 e il 1977 il Paese segnò uno sviluppo economico di rilievo, dovuto soprattutto ai proventi dell’esportazione del petrolio che divenne sempre più importante nell’economica iraniana. In quegli anni, ci fa notare l’autore, anche il costume subì delle trasformazioni, per esempio l’abbigliamento virò decisamente verso canoni occidentali, sostituendo in gran parte quello tradizionale. La Rivoluzione bianca comportò anche una significativa crescita della scolarizzazione, effetto che si ritorcerà contro lo scià proprio grazie alle crescenti masse studentesche che ne contrasteranno la politica.

Ma è il 1971 l’anno che segna il definitivo distacco dello scià dal popolo iraniano, a causa di una serie di eventi che allontaneranno sempre di più il sovrano dalla realtà quotidiana del suo popolo. Sacchetti racconta l’episodio legato alle grandiose celebrazioni dei 2500 anni della monarchia iraniana, con l’ostentazione di un lusso sfrenato che mise in imbarazzo anche i numerosi invitati stranieri e che indusse addirittura la regina Elisabetta II e Richard Nixon a declinare l’invito. Il popolo era totalmente assente da questo “banchetto” fastoso, evidenziando ancora di più e in maniera anche plastica la distanza fra lo scià e il popolo iraniano. 

Nel 1977 iniziarono a sollevarsi voci di dissenso diffuso nella società civile iraniana, con la marcata preoccupazione non solo per la situazione dei diritti umani ma anche per la stagnazione economica e la mancanza di prospettive per le giovani generazioni. “La recessione indotta dallo scià per placare l’inflazione produsse un effetto catastrofico. Il settore delle costruzioni fu determinante nella crisi economica e quindi sociale”. Scioperi e manifestazioni si diffusero in tutto il paese, coinvolgendo anche le masse lavoratrici nella protesta contro lo scià e portando il popolo alla consapevolezza che non era possibile uscire dalla crisi in maniera moderata, mediante una riforma graduale. Una Rivoluzione era ormai l’unica strada percorribile e la voce di Khomeini era ormai l’unica in grado di riscuotere il consenso necessario per poterla attuare.

Lo scià, ormai abbandonato anche dai suoi storici alleati americani, lasciò il paese diretto in Egitto il 16 gennaio 1979 e il 1 febbraio, dopo sedici anni di esilio, Khomeini tornò in patria. Dopo pochi giorni venne creato il Partito repubblicano islamico che si impose come fazione del leader indiscusso della rivoluzione. Quelli che seguirono furono giorni intensi in cui la nuova classe dirigente del paese dettò le nuove regole di convivenza, e vale la pena ricordarne alcune dalle parole dell’autore “Il 26 febbraio Khomeini annuncia l’abrogazione del diritto di famiglia varato nel 1967. Viene di fatto reintrodotta la poligamia e diventa più complicato per le donne ottenere il divorzio. Il 3 marzo le donne sono interdette dal ruolo di giudice. Il 6 marzo Khomeini annuncia l’hijab obbligatorio nei luoghi di lavoro. L’8 marzo, in occasione della giornata della donna, migliaia di manifestanti a Teheran chiedono al governo Bazargan di revocare il provvedimento. Squadre di militanti khomeinisti aggrediscono le donne al grido di ‘O velo o botte!’”. Tuttavia occorre sottolineare che lo stesso regime che impone l’hijab e discrimina le donne da un punto di vista legale, garantisce a tutte le donne il pieno diritto allo studio, garantendone in tal modo una effettiva emancipazione.

Il paese è definitivamente in mano a Khomeini, che inizia una radicale opera di epurazione, con le esecuzioni di migliaia di persone ex fedelissimi dello scià rimasti nel paese. A fine marzo con il 99,31% dei voti viene proclamata la Repubblica Islamica. Interessante notare che “Khomeini richiederà sempre l’investitura del popolo, ma non un suo coinvolgimento diretto: la Repubblica islamica dovrà agire per il popolo ma non attraverso il popolo”.

Il capitolo successivo della storia iraniana è segnato dalla cosiddetta “guerra imposta”, quella guerra contro l’Iraq esplosa all’indomani dell’invasione da parte di Saddam Hussein. Otto lunghi anni che stremarono la popolazione iraniana e che si conclusero con una non vittoria ma soprattutto con il mancato riconoscimento da parte del contesto internazionale del fatto che fosse stato l’Iraq ad avviare le ostilità e che l’Iran era di fatto paese aggredito. Veniva in tal modo marcata ancora di più la condizione di isolamento internazionale in cui era piombato l’Iran post rivoluzionario. 

Il volume di Sacchetti, esaustivo nella sua ricostruzione storica degli anni precedenti la Rivoluzione islamica, ma anche quelli successivi, è ulteriormente impreziosito dalle testimonianze di alcune persone che per motivi familiari dall’Italia si sono trasferite in Iran proprio negli anni della Rivoluzione, oltre che dalla prefazione di Chiara Mezzalama, scrittrice e figlia di Francesco Mezzalama che negli anni ottanta è stato ambasciatore italiano in Iran.

Un paese, l’Iran contemporaneo, che serba gelosamente la sua identità culturale e politica, come ci conferma l’autore, Antonello Sacchetti, al quale abbiamo rivolto alcune domande per capire l’evoluzione della situazione iraniana in questo particolare momento storico.

D. Lei che visita l’Iran ripetutamente e ormai da diversi anni, quali differenze ha notato nel corso degli anni sul piano sociale? La Rivoluzione è ancora sentita e accettata dagli iraniani?

È necessaria una premessa. Oltre il 70 per cento della popolazione iraniana è nato dopo la rivoluzione e non conosce altro sistema che la Repubblica islamica. L’Iran ha oggi 80 milioni di abitanti, all’epoca della rivoluzione, nel 1979, erano 35 milioni. In questi 40 anni la società iraniana ha vissuto diverse trasformazioni, è passata attraverso una guerra di otto anni con l’Iraq. Ci sono stati periodi molto drammatici e altri di grandi speranze. Da quando frequento il Paese, posso dire di aver assistito a una progressiva globalizzazione della società iraniana, con delle vere e proprie accelerazioni negli ultimissimi anni. Va detto che però l’Iran e gli iraniani conservano gelosamente una loro identità culturale molto forte, che li mette al riparo da una totale omologazione nei consumi e nei comportamenti. Impossibile rintracciare un sentimento univoco tra gli iraniani nei confronti della rivoluzione. In alcune fasce della popolazione si è diffusa una nostalgia per il passato monarchico che è più simile a una moda che a un vero orientamento politico. La rivoluzione viene celebrata ogni anno e vive con le sue liturgie, le sue parole d’ordine e i suoi dogmi politici. Appartiene ormai alla Storia recente del Paese, impossibile considerarla una parentesi o un incidente di passaggio. Di certo, oggi non si respira alcun entusiasmo rivoluzionario, ma questo non vuol dire che il sistema sia fragile o addirittura in procinto di cadere, come profetizzano alcuni analisti occidentali. Quanto accaduto in molti Paesi del Medio Oriente con le primavere arabe – Siria in primis – è un esempio ben presente a tutti gli iraniani. Questo sistema, con tutti i suoi limiti e le sue storture, se non accettato oggi è quanto meno sopportato dalla maggior parte degli iraniani, perché non scorgono, al momento, reali alternative. 

D. A suo avviso quali conseguenze avranno le nuove sanzioni imposte dagli USA sul paese e sulle relazioni internazionali? 

Innanzitutto hanno avuto un impatto politico, indebolendo i moderati, oggi al governo con Rouhani, e rafforzando i conservatori, da sempre contrari all’accordo sul nucleare e al dialogo con l’Occidente. Lo stesso presidente in carica, ha dovuto ripristinare una buona dose di retorica anti Usa per non soccombere di fronte alla critiche di chi oggi gli rimprovera di aver svenduto anni di ricerca in campo nucleare per un accordo durato pochissimo. Da un punto di vista economico, le sanzioni determinano uno stop degli investimenti occidentali nel Paese con tutta una serie di problemi pratici per gli iraniani, ad esempio per il mercato farmaceutico e per i ricambi per l’aviazione civile. Teheran, come già accaduto in passato, guarderà ad oriente e troverà nelle economie asiatiche i partner perduti a ovest. Questo avrà conseguenze anche a livello di politica internazionale: Cina e India – e in misura diversa anche la Russia – potranno divenire interlocutori interessati e ben accetti da Teheran, al posto di un Occidente ondivago e contraddittorio, che prima ha raggiunto un’intesa difficile e poi l’ha praticamente gettata via. 

D. Anche l’Italia sembra essersi piegata ai diktat americani, vista la recente decisione dell’Alitalia di chiudere la tratta Roma-Teheran. Come valuta questa decisione nell’ambito dei rapporti Italia-Iran?

Da un punto di vista simbolico ha un valore pesantemente negativo perché sembra presagire una ritirata italiana dall’Iran. Ed è anche in contraddizione con gli sforzi adoperati negli ultimi anni per garantire alle nostre imprese una linea di credito per investire in Iran. Da un punto di vista commerciale è una scelta addirittura suicida, perché il volo quotidiano Roma-Teheran era un punto di forza per una compagnia di certo non florida come Alitalia. È un pessimo segnale, arrivato a fine anno ma probabilmente frutto della visita del premier Conte a Washington.

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