“Navegando me perdì / por esos mares de Dios / Y con la luz de tus ojos / a puerto de mar salì”: milḥ, il mare, era perdersi per El Niño de Almadén, nato nel 1899. Una luce, cantava, gli fece ritrovare il porto, gli restituì una direzione. Un verso del mare, per orientarsi in tanta vastità. milḥ è il mare perché rappresenta ciò che è salato, dal verbo malaḥa che significa proprio questo, essere salato. milḥ è il sale e per me è Timbuctu, “la regina dei deserti”, vero e proprio magazzino di sale. I suoi cammelli potevano trasportare fino a 150 kg di sale, poggiato sui fianchi, con le iniziali di chi lo aveva acquistato. Erano mare, quei cammelli, che navigavano (abḥara) pieni di sale. Perché mallāh, oltre al marinaio, è anche il venditore di sale. La sua falūḥa, la barca, o la sua safīna, la nave, si spostano anche lungo ciò che al mare conduce: nahr, il fiume. Accanto ai fiumi sorgevano le antiche civiltà: “Le imbarcazioni ancora oggi usate dalle popolazioni locali per spostarsi lungo l’Eufrate sono quasi identiche a quelle degli antichi Sumeri. La prua appuntita serve a penetrare nei canneti”. (Le linee del tempo, vol. 1, Andrea Giardina). In Egitto una barca speciale apparteneva al tempio di Amon alla cui costruzione servirono 500 anni, dal XVI all’XI secolo a.C. Era sorto a Karnak lungo la Via degli Dei, presso l’antica Tebe, sulla riva orientale del Nilo. All’interno della cella (naos in greco) “erano collocate la statua di Amon e la barca divina, con la quale il simulacro del dio poteva essere portato in processione lungo il fiume” (Itinerario nell’arte, vol. 1, G. Cricco, F. P. Di Teodoro).
“E la pioggia torrenziale non è pioggia, ma tante imbarcazioni per le lacrime” ha scritto Adonis, rovesciando il mare in ciò che vi si trasforma mentre cade. “Io vado in cerca di Ulisse: / forse egli drizzerà per me / i suoi giorni come una scala, / forse mi parlerà e mi dirà / ciò che le onde ignorano.” ha scritto ancora il poeta siriano. Fa eco per me agli Scritti Romeni di Paul Celan, che in una falūḥa vedeva spesso un rifugio per andare via: “E si riverserà un’onda dalla finestra, nostro unico naufragio” – “Non mi resta che proseguire il viaggio, ma le forze mi abbandonano e chiudo gli occhi per cercare un uomo con una barca” – “Una barca tra le messi il tuo cuore”. Come se una barca permettesse davvero di cambiare dimensione, come la safīna fadā’iyya, l’astronave, col suo mallāh alfaḍā’i, l’astronauta. Dall’estremamente alto all’estremamente profondo, l’abisso del mare, che ho sentito definire una volta “il più ricco habitat del nostro pianeta”, poiché popolato da milioni di specie in più rispetto alla terra ferma. Il verso dell’animale mare in italiano non so chiamarlo, non lo riconosco se lo chiamo in italiano, lo so ascoltare soltanto in salentino: u rusciu te lu mare. Della materia del suo verso sembra costruito a Lampedusa il monumento ai migranti, la Porta d’Europa: “Il significato di quest’opera è quello di consegnare alla memoria quest’ultimo ventennio in cui abbiamo visto migliaia di migranti morire in mare, in modo disumano, nel tentativo di raggiungere l’Europa”, si legge su Unimondo.org.
I versi scritti con l’acqua, come definisce Khalil Gibran le persone in Dammi il flauto e canta, restano conservati dal sale. Quelli che per me gridano più forte sono del 1938, quando la poetessa argentina Alfonsina Storni, affogò nel Mar del Plata, dopo aver compreso che la malattia non le avrebbe concesso neppure più di scrivere. Sul fondo del mare / – scriveva in Yo en el fondo del mar – c’è una casa / di cristallo. Lo stesso fondo che in “Biutiful” (scritto proprio così) spaventava Uxbal da bambino: “Quando ero piccolo c’era una stazione radio che mandava i rumori del mare, le sue onde giganti… Quel rumore mi metteva paura. Mi metteva paura il fondo del mare, tutte le cose che vivono lì sotto…” Per capire chi è quel ragazzo sulla neve, che imita così bene il rumore dell’acqua salata, guardatelo per intero. Conoscere la fine non rovina la storia, perché è la stessa scena con cui il film inizia. Quando penso a milḥ, il mare, da un po’, e a chi lo naviga, mi si materializza davanti agli occhi un incontro che ci riguarda da vicino. “Protagonisti da una parte una nave inconsueta con la prora alta sul mare sulla quale spicca la polena dorata con lo scafo pitturato a fasce bianche e nere alternate e su di esso una candida maestosa piramide di vele: una nave d’altri tempi; dall’altra uno dei più recenti ed avanzati prodotti dell’industria navale statunitense, una gigantesca portaerei, che compie due giri intorno alla prima con i marinai che a centinaia si affacciano ad agitare il berrettuccio bianco in segno di saluto e di ammirazione. Il dialogo a lampi di luce, iniziato a distanza in codice e proseguito in chiaro quasi a suggellare una amicizia, è stato e rimane particolarmente significativo:
-COME VI CHIAMATE?
-AMERIGO VESPUCCI DELLA MARINA MILITARE ITALIANA
-SIETE LA NAVE PIù BELLA CHE ABBIAMO MAI VISTO NAVIGARE
(capitano di vascello Andrea Corsini, comandante del Vespucci 1978-79).
Tra i versi del mare ce n’è anche uno che, come cantava El Niño de Almadén, riconduce al porto. Per me è la direzione tracciata da Sulla riva, di Mario Luzi, che sogno, un giorno, di ascoltare in arabo:
I pontili deserti scavalcano le ondate,
anche il lupo di mare si fa cupo.
Che fai? Aggiungo olio alla lucerna,
tengo desta la stanza in cui mi trovo
all’oscuro di te e dei tuoi cari.
La brigata dispersa si raccoglie,
si conta dopo queste mareggiate.
Tu dove sei? ti spero in qualche porto…
L’uomo del faro esce con la barca,
scruta, perlustra, va verso l’aperto.
Il tempo e il mare hanno di queste pause.
Claudia Avolio
Add Comment