di Adel Al Toraifi. Asharq Al-Awsat (07/12/2012). Traduzione e sintesi di Emanuela Barbieri.
Una vecchia battuta tra economisti dice che quando hai due mucche, lo Stato te ne leva una e la dà a qualcun altro. Questo è il sistema socialista. Nel sistema comunista, lo Stato le prende entrambe e ti dà il latte. Infine, nel sistema capitalista, una mucca la tieni, l’altra la vendi per comprare un toro.
Cosa potremmo dire invece di un sistema governato da un gruppo fondamentalista islamico? Qui il regime ti sequestra entrambe le mucche, la prima perché non è conforme alla loro visione della legge islamica, l’altra per venderla, un po’ perché tu non hai denaro sufficiente a nutrirla, un po’ perché non trovi nessuno che te la compri.
Non vi è dubbio che i governi islamisti “rivoluzionari” che sono arrivati al potere in Tunisia ed Egitto non siano responsabili delle perdite finanziarie a seguito della fase di transizione, dell’ammontare della spesa ereditato dai regimi precedenti, o della costosa proposta di legge del governo di transizione. Hanno invece il dovere di condurre i loro paesi fuori dalla crisi economica. Sfortunatamente, però, qualunque osservatore neutrale può vedere come siano più impegnati nel prendere il controllo di tutti gli organi dello stato, di cambiare le regole del gioco politico a loro favore, sebbene questo significhi aggirare il processo elettorale che li ha portati al potere. Ciò che è accaduto in Egitto nelle ultime due settimane, in primo luogo il decreto costituzionale del presidente Morsi, dà l’impressione che i Fratelli Musulmani intendano indebolire i loro partner nella “rivoluzione” uno per uno, fino a monopolizzare il potere in Egitto per gli anni a venire.
Forse a questo punto bisogna prendere in considerazione la situazione economica nei Paesi della Primavera Araba. Secondo un recente rapporto del FMI, Fondo Monetario Internazionale, i Paesi che hanno assistito a rivolte popolari che hanno condotto a un cambiamento del sistema politico, stanno soffrendo una tremenda crisi economica che potrebbe disturbare la loro crescita per decenni, se non portare a un danno permanente.
Prima del 2011, la crescita del PIL di sei tra questi Paesi eccedeva il 4.7%, mentre la percentuale è caduta sotto lo zero lo scorso anno. Quest’anno non supererà lo 1 o 2% e il FMI non si aspetta una crescita oltre il 3% il prossimo anno nemmeno nel migliore dei casi.
Di fronte a questa grande sfida economica, nessun governo ha annunciato un programma di confronto con la crisi, promettendo al di fuori di ogni realismo aumento dei salari, aumento degli investimenti esteri e introduzione di sussidi addizionali nonostante già non si riescano a sostenere quelli esistenti. Secondo le cifre del Ministero della Finanza egiziano, il deficit del Paese ha superato gli 11 miliardi di dollari, il debito estero ammonta a 34 miliardi e quello pubblico delle banche locali è di 197 miliardi. In Tunisia il deficit è di 6 miliardi di dollari, motivo per cui ha potuto solo negoziare un prestito di 500 milioni dal FMI, mentre la Banca Centrale Tunisina dichiara di aver bisogno di 4 miliardi.
Come scrisse Alan Greenspan, ex presidente della US Federal Reserve: “I grandi deficit hanno un effetto subdolo. Quando il governo spende oltre misura, deve chiedere un prestito per bilanciare i suoi libri. Prende prestiti vendendo titoli di Stato, che deviano il capitale che invece potrebbe essere investito nell’economia privata”. È esattamente quello a cui sono ricorsi sia Egitto che Tunisia e che non ha risolto il problema. Per esempio, il Governo islamista in Tunisia ha annunciato che per la prima volta lo stato generale del budget per il 2013 sarà finanziato da sukuk (obbligazioni monetarie conformi alla sharia). Comunque, il Paese sarà costretto a chiedere un prestito alla Banca Mondiale e alla Banca per lo Sviluppo Africano. Intanto, una relazione del FMI attribuisce la crisi economica egiziana all’alta spesa dovuta ai programmi di supporto governativi per cibo e benzina, al forte aumento dei tassi d’inflazione, al crollo del turismo e al declino della produzione, all’avversione verso gli investimenti esteri, al tasso di disoccupazione che è raddoppiato nell’anno della rivoluzione.
Cosa hanno fatto gli islamisti per affrontare queste sfide? Finora niente, eccetto fare promesse. Contano sulle donazioni straniere, specialmente dei Paesi del Golfo, e sull’aumento degli investimenti esteri, credendo che il clima in materia d’investimenti vada migliorando. Solo mere promesse e delle sovvenzioni e dei prestiti che sono stati annunciati, solo pochi si sono davvero concretizzati a causa delle condizioni politiche e delle garanzie che questi governi non sono stati in grado di dare.
I nuovi governatori di Egitto e Tunisia non sanno dire la verità ai loro cittadini sul duro cammino che hanno davanti. Dovranno inevitabilmente adottare misure austere nel futuro prossimo. Gli Islamisti parlano di soluzioni economiche che sono conformi alla sharia, ma quelli al potere sanno che teorizzare su queste tematiche non sazierà la fame. Probabilmente dovrebbero guardare alle simili esperienze di alcuni Paesi dell’America Latina, che anni ’80 hanno affrontato disordini politici a seguito della grave crisi del credito.
Lo slogan “giustizia sociale” che gli Islamisti hanno preso in prestito dal lessico dell’ala sinistra, è ingannevole e fuorviante. Gli Islamisti devono capire che la ideologia da sola non è sufficiente. All’inizio della rivoluzione in Iran, l’Ayatollah Khomeini ha argomentato che la rivoluzione popolare iraniana era nata per la causa dell’Islam, non per “ridurre il costo dei cocomeri”, ma dopo un decennio di governo Islamista in Iran, la media del PIL pro capite è scesa da 2.094 dollari poco prima della rivoluzione a 1.640 dollari alla morte di Khomeini nel 1989. In altre parole, l’Iran si è impoverito.
Le rivoluzioni non nascono per amore dei cocomeri, né delle mucche.
I Paesi non possono sopravvivere solo su slogan ideologici.
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