La lotta di Khamenei contro l’architettura “non-islamica” in Iran

Di Mojtaba Nafisi. Your Middle East (12/12/2014). Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.

In copertina l’edificio “No Name Shop” (Najafabad, Iran) di Ali Dehghani, Ali Soltani e Atefeh Karbasi 

Negli ultimi trent’anni, il regime post-rivoluzionario iraniano ha provato a inserire la sua narrativa politica “del sé” e “dell’altro” nell’architettura. Le categorie binarie della tradizione architettonica (islamica) contro l’architettura moderna (occidentale) sono state ricostruite per simboleggiare la lotta politica tra la Repubblica Islamica e i suoi nemici ideologici. Interessante notare che la più importante crisi politica recente ha avuto inizio dal dibattito dei due candidati alle elezioni presidenziali del 2009: Mahmoud Ahmadinejad, urbanista che però si dice “ingegnere”, e MirHossein Mousavi, leader dell’opposizione e architetto, ma che si vede più come un artista.

complesso residenziale Niavaran IranPer secoli, la struttura spaziale del design immobiliare in Iran ha rispecchiato la struttura patriarcale della società attraverso la rigida divisione tra andaruni (spazio privato) e biruni (spazio pubblico). Lo spazio pubblico moderno, che appartiene alle persone a prescindere da ceto, etnia, religione o sesso, si rifiuta di conformarsi alle strutture gerarchiche del regime islamico. L’architettura moderna è anche considerata erotica, perché si affaccia all’esterno con finestre che offrono senza vergogna agli estranei uno scorcio delle parti private delle costruzioni, al contrario dell’architettura introversa iraniana pre-moderna.

Mentre per 35 anni il regime ha costretto le donne iraniane a coprirsi corpo e capelli, non è riuscito a imporre i suoi desideri patriarcali sullo spazio. Tuttavia, delle recenti fatawa emanate da prominenti giuristi, tra cui la Guida Suprema Ali Khamenei, dimostrano che il regime non si è ancora arreso. Sebbene l’Ufficio per le Indagini Religiose di Khamenei ha poi negato il collegamento dell’ayatollah con le fatawa, il resto dei fatti suggerisce altrimenti. Tuttavia, se l’Ufficio della Guida Suprema sia stato o meno responsabile della diffusione delle fatawa, e a prescindere dal loro contenuto, tali indagini suscitano altre domande sui limiti della religione nella sfera intellettuale dell’Iran: quali aspettative della religione sono considerate legittime? L’islam vuole rispondere a tutti i problemi dell’uomo? Qual è il risultato dell’interferenza della religione negli studi umanistici, la scienza e la tecnologia?

Le fatawa sono state emanate in risposta a 32 domande poste da “un team di ingegneri ricercatori e uomini di fede”, come indicato dal Centro per lo Studio della Scienza e della Tecnologia dell’Architettura e dell’Urbanistica Islamica Iraniana. Le domande coprono una vasta gamma di discussioni architettoniche, dall’organizzazione degli spazi urbani, all’orientamento fino ad arrivare all’acustica. Mentre il Centro dichiara che il suo team di esperti ha impiegato due anni a sviluppare le domande, la lista non mostra segni di discussione né su temi di architettura globale (come il design ecosostenibile), né sui problemi concreti che affronta l’edilizia iraniana, come lo squilibrio nella crescita urbanistica o la minaccia di terremoti. Piuttosto, le domande si preoccupano di questioni che sono, diciamo, irrilevanti: una delle domande, ad esempio, chiede se gli architetti maschi possono progettare spazi per le donne.

New Wave Architecture Iran
Una palestra di Teheran realizzata dal gruppo New Wave Architecture

Eppure, l’elemento più problematico di queste domande è la scelta del destinatario: aspettarsi una risposta su questioni architettoniche da parte di un mufti non ha precedenti. Non c’è da stupirsi se solo due giuristi abbiano risposto. Uno, l’ayatollah Makarem, ha evitato di rispondere a 23 domande su 32. Il secondo l’ayatollah Khamenei, ha dimostrato più interesse nell’argomento e le sue risposte sono state ben più elaborate di quelle di Makarem, facendo spesso riferimento al Corano e agli Hadith. Nella maggior parte dei casi, l’ayatollah ha cercato di orientare le sue risposte su ciò che egli considera un conflitto tra “l’architettura islamica” e “l’architettura occidentale”. Sembra che questi due concetti contrastanti siano la reincarnazione della dicotomia preferita di Khamenei tra insider e outsider. 

La Guida Suprema dell’Iran, che ama presentarsi come un umanista, adotta una posizione semplicistica nei confronti della forma architettonica, considerandola semplicemente un fatto di identità. Lo stesso vale per la religione, che per l’ayatollah riguarda più che altro distinguere “il sé” da “l’altro”. E quando la religione diventa una fonte di identità, la fede e la spiritualità diventano secondari rispetto alla forma e alla rappresentazione. Non è una sorpresa che Khamanei sostenga che “gli indumenti odierni della nostra gente sono non-islamici”. La stessa logica governa la sua opinione sull’architettura, considerata dalla Guida Suprema come un “velo” a vita.  Applicando questa analogia patriarcale, per Khamenei le “cucine aperte” condividono la stessa indecenza e audacia del vestire senza velo per una donna.

Tuttavia, mentre Khamenei critica il fatto che “l’architettura e il panorama di Teheran non hanno niente a che fare con l’aspetto di una città islamica”, sembra invece molto affezionato ad alcuni fenomeni moderni/occidentali, come il fumo della pipa o i missili balistici a lunga gittata. Quest’approccio paradossale tradisce la mentalità fondamentalista che Khamenei cerca di nascondere. Quindi, il fatto che l’ayatollah neghi un collegamento con le fatawa, per quanto incredibile, è un sollievo.

Mentre le fatawa potrebbero accelerare l’istituzionalizzazione del desiderio del regime di islamizzare l’architettura, le fredde risposte e poi la smentita di Khamenei fanno sperare coloro che in Iran temono i danni che un matrimonio tra religione e ingegneria potrebbe causare a entrambe.

Mojtaba Nafisi (pseudonimo usato dall’autore per motivi di sicurezza) è dottorando in Teoria e Storia dell’Architettura. 

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