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La leggenda delle banche islamiche

Febrayer (09/06/2012). Traduzione di Carlotta Caldonazzo

La vicenda delle banche islamiche riassume in sé la condizione della “nazione araba”, chiarendo i motivi della sua arretratezza culturale ed economica. Originariamente nata come un progetto ritenuto capace di salvare i musulmani, e con buona probabilità il mondo intero, dalle forme di sfruttamento, avidità e usura che dominano l’economia capitalistica, la finanza islamica è rimasta solo un’ “eresia” e una leggenda, che ha trovato adepti nelle sacche di ignoranza e analfabetismo. Risultato, le banche islamiche portano con sé valori e idee contrari alla religione, che soffocano la libertà di pensiero e non tengono conto dei meccanismi economici.

Il primo errore infatti i direttori delle banche islamiche lo compiono nei confronti della religione. L’etichetta di “islamiche” infatti conferisce un’aura di sacralità a un’attività tipicamente umana. Inoltre, poiché l’islam considera sacre la vita, la dignità e la proprietà dell’uomo non ne consente l’usurpazione, ma al contempo non concede di ritenere sacri l’opinione o l’opera umane. Il problema è che nell’ingenuità che affligge il nostro retroterra intellettuale la qualifica di “islamico” cristallizza l’attuale stato di cose e blocca ogni dibattito obiettivo. Avvalendosi di questa etichetta dunque si legittima la repressione intellettuale e la negazione della libertà di opinione, che portano tragedie e fallimenti.

Il secondo errore concerne invece la natura stessa dell’ermeneutica religiosa (ijtihad) dunque i fondamenti intellettuali della finanza islamica, che sfidano il buonsenso e riflettono un modo di pensare superficiale a livello siaa teorico che pratico. L’idea di base infatti è che l’islam ha proibito l’usura, cui viene equiparata anche la logica degli interessi bancari, anche se in alcuni paesi non superano il 3%. Di conseguenza, secondo alcuni esperti di religione, l’attività bancaria è vietata dall’islam e per il cittadino comune avere a che fare con le banche è peccato. Strano che concetti e progetti che influiscono sulla vita quotidiana della gente siano basati su una mera menzogna o nella migliore delle ipotesi su un malinteso linguistico: gli interessi sono usura e l’usura è vietata.

I promotori delle banche islamiche naturalmente non si sono fatti sfuggire l’idea di utilizzare l’etichetta della legge islamica, che esorta alla solidarietà, alla giustizia e ad altri valori che facilmente attraggono il consenso della gente facendo leva sulla dimensione emozionale per neutralizzarne la capacità critica. La più curiosa di queste “leggende” racconta che “l’economia islamica si basa sulla condivisione nel guadagno e nella perdita”. Tuttavia non ha senso dire che un sistema economico “dipende” da questo “principio” né è chiaro in che modo tutto ciò sia legato all’islam. Infatti seguendo questa logica dovrebbe essere proibito anche affittare un terreno agricolo, una fabbrica o un negozio a meno che il proprietario non condivida con l’affittuario utili e perdite.

Le banche tradizionali si basano sul capitale e sui depositi dei clienti, che sono la fonte delle loro risorse finanziarie. Garantiscono la sicurezza dei depositi e intanto i clienti accumulano interessi. Le banche islamiche invece custodiscono per anni il denaro dei loro clienti senza interessi (l’usura è vietata): come fanno a convincerli visto che il valore dei loro depositi probabilmente diminuirà a causa dell’inflazione? Dunque le banche islamiche non sono in grado di svolgere il ruolo delle banche tradizionali nel settore degli investimenti, né di concedere prestiti a singoli o a imprese. Quando li hanno concessi, lo hanno fatto talvolta a un costo maggiore delle banche tradizionali. Alcuni adducono a favore delle banche islamiche il fatto che esse abbiano ricevuto licenze da parte di alcuni paesi occidentali o che i loro servizi vengano offerti da varie filiali dei maggiori istituti bancari. Si potrebbe obiettare loro che le banche occidentali cercano di cogliere ogni opportunità per fare affari. Non si trae alcun vantaggio dunque dalla pretesa di introdurre arbitrariamente la religione nell’economia così come non si può giustificare l’inefficienza con il rispetto dei precetti religiosi.