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“In Medio Oriente, i cimiteri sono pieni di ottimisti”

Di Pierre Haski. Rue89 (20/11/12). Traduzione e sintesi di Alessandra Cimarosti.

Ieri, mentre diminuivano le operazioni militari e si intensificavano le negoziazioni per una tregua a Gaza, il giornalista Charles Enderlin mitigava le speranze con un semplice tweet: “In Medio Oriente, i cimiteri sono pieni di ottimisti”. Osservazione cinica di un vecchio veterano della regione, autore di numerosi libri sulle “occasioni mancate” di pace, o attimi di depressione in un momento in cui le armi, ancora una volta, parlano più forte?

La situazione del Medio Oriente sembra davvero disperata in questo autunno sanguinolento, anche al di là della guerra che oppone da una settimana Israele e Palestina. Giudicate voi stessi:

–          In Siria, si contano più di 40.000 morti in 18 mesi e nonostante l’unificazione recente dell’opposizione, il conflitto non è ancora vicino alla fine;

–          Il Libano vacilla sotto l’effetto, abituale, degli sconvolgimenti dei suoi vicini; l’autobomba che ha recentemente ucciso, in piena Beirut, il capo della sicurezza, il generale Wissam el-Hassan, fa risorgere la paura della violenza;

–          Israele si appresta a votare nelle elezioni anticipate di gennaio, per una lista unica formata dal Likud di Benjamin Netanyahu e dall’estrema destra di Avigdor Lieberman, alleanza che condanna in anticipo, qualsiasi possibilità di avanzata sulla questione palestinese;

–          I palestinesi sono sempre divisi tra una Cisgiordania, guidata dall’Autorità Palestinese di Mahmud Abbas, indebolita, impotente e screditata e una Striscia di Gaza nelle mani degli islamisti di Hamas, disorientata dal divario sciiti-sunniti e che momentaneamente è senza alcuna strategia militare contro Israele.

Questa guerra pre-elettorale oppone due nemici della pace, per ragioni opposte.

       1.      La strategia di Israele

La stragrande maggioranza israeliana sostiene l’operazione “Pilastro di difesa”, lanciata dal governo contro i lanciatori di razzi di Gaza i quali seminano terrore, e a volte la morte, in un’area sempre più grande del territorio israeliano. Alcuni, come Gilad Sharon, figlio dell’ex primo ministro Ariel Sharon, vanno oltre, sostenendo di dover ridurre la Striscia di Gaza in polvere, facendo un parallelismo con Hiroshima e Nagasaki… Gli oppositori della guerra erano poche centinaia a manifestare domenica in Israele e la voce dei partigiani della pace è stata raramente marginalizzata.

Se Netanyahu poteva sembrare indebolito per il fatto che sosteneva il repubblicano Romney, Obama ha dimostrato il contrario, sostenendolo pubblicamente e bloccando tutte le condanne contro Israele al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La strategia di Netanyahu continua a schiacciare ogni tentativo di ripresa del processo di pace, insistendo sulla politica degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. La strategia di Netanyahu è quella del fatto compiuto: continua a spingersi nei territori occupati, uccidendo, senza però dirlo, la possibilità di uno stato palestinese al fianco di quello israeliano, la cosiddetta politica dei “Due stati” che lui sostiene, anche se solo a parole.

Intanto, il primo ministro israeliano a forza di screditare i suoi interlocutori moderati, trova paradossalmente il suo principale interlocutore in Hamas, con il quale ci si chiede se arriverà ad una soluzione di armi o alla negoziazione indiretta.

Infine, la strategia di tensione di Netanyahu mira anche a colpire l’Iran e il suo programma nucleare, con o senza il via libera di Washington.

        2.      Hamas nel momento della scelta

A prima vista, Hamas aveva ragioni per essere soddisfatto: la rivoluzione egiziana ha portato al potere i Fratelli Musulmani, l’emiro del Qatar ha recentemente visitato Gaza con un assegno di 600 milioni di dollari, i suoi rivali di Fatah, espulsi da Gaza nel 2007, ma tutt’ora presenti in Cisgiordania, sono sempre più screditati a causa dei loro fallimenti interni e esterni. Di fatto, l’equazione strategica di Hamas è più complessa e il movimento della resistenza islamica, storicamente opposto alla pace di Oslo negoziata da Arafat, deve definire a sua volta le sue relazioni con lo stato ebraico. Anche non aderendo ufficialmente alla politica dei “Due stati”, Hamas è attraversato da un dibattito su uno status quo con Israele, una rottura con la distruzione dello stato ebraico che figura nella sua carta. Inoltre, se una parte dell’opinione palestinese lo vede come continuatore della resistenza con il lancio di missili contro Israele, un’altra corrente di pensiero non trova in esso risultati tangibili, ma solamente un aumento delle sofferenze degli abitanti di Gaza. Per il momento, il confronto permette a Hamas di rinforzare la sua presa sulla popolazione della Striscia di Gaza, di mettere ancora più in disparte lo sfortunato Mahmud Abbas e di testare le sue nuove alleanze internazionali. Ci sarà sempre tempo per ridefinire la propria strategia una volta finita la guerra.

        3.      La pace, grande perdente

Quando Israele e Hamas si affrontano, chi perde è necessariamente la pace. Non solamente perché sono le armi ad avere la parola, ma anche perché entrambi hanno lo stesso obiettivo per ragioni diametralmente opposte: impedire una pace basata su un compromesso storico nel quale ognuno dovrebbe fare delle concessioni. Secondo la logica di Oslo, nel 1993, Israele sarebbe stato riconosciuto dall’OLP di Arafat, in cambio del riconoscimento del diritto dei palestinesi a uno stato. L’errore di Oslo però è stato quello di rinviare alla fine del processo questioni molto difficili da risolvere (frontiere, rifugiati ecc.), con il rischio, e poi è stato così, di non arrivare nemmeno a quel punto.

Da dove giungerà allora la pace? È più facile dire da dove non arriverà…

Non giungerà dall’attuale governo israeliano, soprattutto in seguito all’alleanza con Avigdor Lieberman; non da Hamas che non accetta una pace alle condizioni che sarebbero realiste attualmente; non dall’Autorità Palestinese che ha scarsa capacità d’iniziativa; non dall’amministrazione Obama che pur essendo realista e consapevole della situazione, non ha la volontà politica che gli permetterebbe di pesare realmente sul conflitto; non dall’Europa che ha da tempo rinunciato al suo ruolo pionieristico nella questione palestinese; non dalla Francia che non ha né capacità né motivazione, nonostante la promessa di Hollande di riconoscere uno stato palestinese.

Riprendendo il tweet di Charles Enderlin, ci sono poche ragioni per essere ottimisti riguardo al conflitto israelo-palestinese.

E intanto gli israeliani corrono ai ripari, i palestinesi di Gaza muoiono sotto le bombe, i siriani fuggono dal loro paese, i libanesi si preoccupano… e l’impotenza internazionale non è mai stata così forte in questa regione del mondo.

 

 

http://www.rue89.com/2012/11/20/au-proche-orient-les-cimetieres-sont-peuples-doptimistes-237202