La fiducia nel popolo, colonna portante del sionismo, è totalmente estranea al governo delle élite nei paesi arabi. Con la fine della pandemia, i movimenti popolari riprenderanno il loro ruolo nella società?
di Shafiq Nazem al-Ghubra, al-Quds al-Arabi, (27/05/2020). Traduzione e sintesi di Laura Cecchin
C’è una grossa differenza tra il movimento sionista e i regimi arabi contemporanei. Da un lato, il primo ha saputo abilmente unire alla modernità di stampo europeo-occidentale la repressione colonialista degli abitanti autoctoni con l’occupazione territoriale motivata dalle radici giudaiche; dall’altro lato, i secondi hanno fondato il proprio sistema sulla frammentazione e la marginalizzazione dei cittadini, dando molta importanza alle istituzioni di sicurezza.
Così, a decenni dalla conquista dell’indipendenza, i regimi arabi si sono indeboliti. Dal saper gestire autonomamente le questioni interne, come al tempo di Abd al-Nasser e del re Faysal, sono passati, oggi, a non avere più alcun tipo di progettualità.
Il sionismo, al contrario, ha un vero e proprio progetto colonialista di occupazione, dove l’essenza stessa dello Stato è costituita dagli ebrei e dall’ebraismo. Violento e razzista, questo movimento fa di tutto per assoggettare e marginalizzare gli arabi ed espandere il proprio controllo dei territori, dell’economia e dell’educazione, con la continua repressione del popolo palestinese e arabo, che rappresenta una pietra d’inciampo per la realizzazione del suo progetto.
Nei regimi arabi, invece, il rapporto tra Stato e cittadini si regge sulla sfiducia e la paura. Dalle primavere del 2011 i governi vivono nel timore che ogni forma di espressione, critica e associazione possano essere la premessa di una nuova primavera araba. Perciò hanno avuto bisogno di colossali strumenti di informazione per controllare i cittadini, accedere ai loro dati personali, privarli del diritto di esprimersi. Tra strette di mano, corruzione e uso illecito di fondi pubblici, poi, i governi arabi hanno molto da nascondere.
Israele, mentre mantiene relazioni malsane con i popoli arabi, basa il rapporto con gli ebrei e gli ebrei israeliani sul pregiudizio razziale, impiegandoli nel suo piano diabolico e facendoli sentire perennemente assediati dal mondo esterno. Il suo programma prevede il controllo e le confische territoriali e la produzione di nuovi migranti, coinvolge l’istruzione, l’economia, la tecnologia e la ricerca, e, soprattutto, mira a sostenere il processo di sgretolamento del mondo arabo.
Quanto ai regimi arabi, essi, invece di fidarsi dei loro popoli, ritengono che convenga fare affidamento sull’Occidente. Il sionismo funziona esattamente al contrario, perché ha fiducia nella società sionista. Nonostante i paesi arabi si siano resi indipendenti dall’Occidente decenni fa, continuano a considerarlo un modello superiore e irraggiungibile. La maggior parte di essi, a differenza di Cina, Corea del Sud, Taiwan e vari altri paesi asiatici, ha fallito nell’intento di colmare il vuoto tra sé e l’Occidente. I ceti dirigenti dell’ultimo ventennio, anzi, hanno smesso di sperare prima in se stessi e poi nel popolo e si sono ritrovati ad appoggiarsi all’Occidente ancor più dei loro predecessori.
Non sorprende che, oggi, quei membri delle élite arabe che snobbano i propri concittadini guardino favorevolmente proprio ad Israele. Lo scopo primario di quest’ultimo nella regione è dominare su tutti i campi, politico, economico, militare e tecnologico. Perciò investe nella costruzione della propria forza rendendosi autonomo. Gli stati arabi, invece, dopo il fallimento dei loro governi, non contano su risorse interne, ma mendicano favori alle potenze neocolonialiste. Ciò non li porterà a dipendere soltanto dall’Occidente, ma anche dal sionismo immischiato nell’Occidente. I nostri paesi comprano la tecnologia, i servizi di sicurezza e pagano le società di consulenza perché studino problemi che non riescono a comprendere. La tecnologia e i brillanti piani delle società di consulenza, però, non costituiscono un’alternativa alla rinascita dei popoli né a all’impegno per la diffusione del sapere e dell’istruzione.
L’approvazione del colonialismo e dell’oppressione non è un fenomeno nuovo. Al tempo della rivoluzione algerina, i ceti dirigenti erano favorevoli all’imperialismo francese e al mantenimento dell’occupazione, così come le élite nere e capi tribali al governo del Sudafrica prima del successo di Mandela supportavano il razzismo bianco e la sua supremazia. Il fallimento, la debolezza e l’incompetenza delle élite locali le portano ad appoggiare il nemico sionista e a disprezzare le vittime e i popoli.
I popoli arabi avevano cercato una via d’uscita attraverso le rivoluzioni della primavera araba. Lo stesso è avvenuto nel 2019, prima della pandemia di Coronavirus, con i movimenti popolari in Sudan, Iraq, Libano e Algeria. Questo continuo scatenarsi di proteste e la nascita di movimenti ad ampia diffusione farà emergere, col tempo, élite capaci di rispondere alle richieste dei popoli e di mantenere gli impegni di giustizia, non-violenza, diritti. È il momento di ripensare a vie d’uscita per superare l’ostacolo delle élite innamorate dei loro nemici e separate dai loro popoli e dalle loro civiltà.
Shafiq Nazem al-Ghubra è professore di Scienze politiche all’Università del Kuwait.
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