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I diritti umani nel film “Taxi Teheran”… quando l’attivista Sotoudeh sale sulla macchina di Panahi con un mazzo di rose rosse

di redazione Al-Quds, (14/09/2020) Traduzione e sintesi di Maddalena Goi

Nell’ultima parte del film “Taxi Teheran”, che ha vinto l’Orso d’oro alla Biennale 2015, una viaggiatrice sorridente di nome Nasrin Sotoudeh sale sulla macchina di Jafar Panahi, con in mano un mazzo di rose rosse. Panahi, attore e regista del film, nella pellicola veste il ruolo di un taxista che porta i suoi passeggeri, di diversa estrazione sociale, in giro per la città di Tehran e lungo la strada gli raccontano l’Iran di oggi. Nasrin Sotoudeh, che recita sé stessa, è l’ultima passeggera. La donna è un’attivista, avvocato per i diritti umani e conosce molto bene Panahi poiché è stato anch’egli un prigioniero politico. Il “taxista” vuole sapere della persona a cui sono desinate le rose “Purtroppo, vado a trovare la famiglia di una ragazza che è in prigione e che sta facendo lo sciopero della fame”, ha risposto nel film. E spiega che la mamma della ragazza ha chiesto un incontro con la figlia per persuaderla a interrompere lo sciopero della fame. L’amministrazione penitenziaria ha quindi organizzato l’incontro, ma quando la madre è arrivata, le è stato chiesto di firmare un documento in cui si dichiarava che la figlia non aveva mai fatto lo sciopero della fame. La madre arrabbiata, ha strappato il documento e abbandonato la visita. “Adesso vado dalla famiglia per vedere se si può fare qualcosa per quella ragazza”, ha detto Sotoudeh a Panahi. Ad un tratto, un veicolo commerciale si è fermato vicino al taxi; “fanno sempre così in modo che sappiamo che ci stanno perseguitando. All’inizio ti accusano di collaborare con il Mossad, la CIA o il MI5. Poi aggiungono accuse di oltraggio, all’onore e al debito pubblico. E in più, trasformano i tuoi amici intimi nei tuoi peggior nemici, fino a che non ti resta che lasciare il paese”.
Sotoudeh, 56 anni e mamma di due bambini, non ha mai lasciato il paese. Dopo gli studi in legge, ha dovuto aspettare otto anni prima di esercitare in Tribunale. Nel frattempo, ha continuato a combattere in difesa degli attivisti e dei diritti umani, fino a quando è stata lei stessa perseguitata. Nel 2010 è stata arrestata e condannata a 11 anni di reclusione con l’accusa di “attività finalizzate a indebolire il regime in Iran” e le è stato vietato di lasciare il paese per 20 anni. Pena poi ridotta in appello a 6 anni di carcere e dieci anni di divieto di espatrio. Ma queste punizioni non l’hanno scoraggiata anzi, ha continuato a lavorare. Nel 2018, accusata di “nuocere alla sicurezza nazionale”, è stata arrestata di nuovo. Nel 2019 è stata condannata a sette anni di carcere e l’11 agosto scorso ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il rifiuto del regime al rilascio di prigionieri politici durante la pandemia. I familiari sono preoccupati per la sua salute, diverse ONG e influenti personaggi pubblici stanno facendo pressione sul Governo iraniano per chiederne il rilascio immediato ma finora senza successo. Tuttavia, decine di migliaia di prigionieri hanno ottenuto la liberazione anticipata, per scongiurare la diffusione del Coronavirus nelle carceri. Secondo statistiche non ufficiali, l’Iran ha giustiziato 123 persone quest’anno, ma si presume che il loro numero sia maggiore. Nel paese, la pena di morte si basa sulla legge islamica e, in questo, l’Iran non è diverso dall’Arabia Saudita per la quale la Shari’a è la costituzione. Grazie all’importanza strategica ed economica che questi paesi rivestono per l’Occidente, i loro Governi continuano ad agire indisturbati applicando la pena di morte e uccidendo attivisti. Il rapporto pubblicato dal Dipartimento di Stato Americano sullo stato dei diritti umani nel mondo, interessa solo gli stati che ricevono gli aiuti americani. Mentre il destino degli attivisti in prigione interessa solo per il breve periodo, dopo la loro morte o dopo la loro esecuzione.

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