di Javier Valenzuela (El Paìs – 20/02/2012) Traduzione di Claudia Avolio
Questa era una scena inimmaginabile ai tempi di Mubarak: tra piazza Tahrir e il Nilo, accanto all’ambasciata degli Stati Uniti, bandiere giganti e una piccola accampata chiedono la libertà dello sceicco Omar ‘Abdelrahman. Lo sceicco – turbante, barba bianca e occhiali scuri per la sua cecità – è un fondamentalista egiziano che da anni è detenuto negli Stati Uniti in quanto promotore del primo attentato contro le Torri Gemelle del 1993. Le autorità egiziane lasciano fare. E’, dicono, un esempio della libertà d’espressione che regna qui dalla caduta di Mubarak. Altrettanto impensabile ai tempi del deposto rais era che un senatore eroe di guerra nordamericano come John McCain sbarcasse al Cairo per negoziare la libertà di quasi una ventina di suoi compatrioti – “Non veniamo a minacciare, ma a cercare interessi comuni”, assicurava ieri il senatore – tra i quali c’è il figlio di un ministro di Obama. Era inimmaginabile che dalle fila governative egiziane si alzasse la testa di fronte alle pressioni della superpotenza, appellandosi in questo caso all’orgoglio della patria. Pressioni che includono la minaccia di sospendere i fondi – 1.300 milioni di dollari l’anno per spese militari e 250 milioni per questioni civili – che Washington regala all’Egitto da quando ha firmato la pace con Israele nel 1979. Cerca dunque di ottenere popolarità la Giunta militare del maresciallo Tantawi con ciò che sembra un ricorso all’antiamericanismo sempre latente in Egitto?
C’è qualcuno che lo dice con malizia al Cairo – “La Giunta fa teatro e non è che un fuoco di paglia”, dicono, – e c’è chi crede a quanto filtra dalla Giunta militare: che la persecuzione da parte nordamericana è una iniziativa individuale della ministra per la Cooperazione internazionale Fayza Abul Naga, che, certamente, svolgeva la stessa mansione già ai tempi di Mubarak. Ma è credibile che la ministra agisca così senza alcun tipo di beneplacito da parte della Giunta? Questo ci porta alla domanda essenziale: chi comanda nella Valle del Nilo? Senza dubbio il primo potere, ben al di sopra degli altri, è la Giunta militare. Ma il suo non è un potere totalitario come quello dei militari argentini, cileni, o del generale Franco. La Giunta può essere criticata in pubblico, anche se potresti essere messo in carcere per averla criticata, com’è successo nell’ultimo anno a tanti bloggers, giornalisti e attivisti democratici. Un deputato socialdemocratico, Ziad El Eleimy, ha detto del capo della Giunta militare, il maresciallo Tantawi, quanto segue: “Quando non può controllare l’asino, si afferra alla sella”. Il deputato – della minoranza laica e progressista sorta dalle legislative d’autunno – si riferiva alla recente mattanza in una partita di calcio a Port Said. Quello dell’asino e della sella è un vecchio detto egiziano, allusione al fatto che la Giunta cerca sempre capri espiatori invece di incarcerare gli organizzatori dei ripetuti episodi di violenza. Dal canto suo la Giunta attraverso Facebook si dice indignata da chi si è riferito a Tantawi appellandolo “asino”, secondo loro insultandolo.
Il Parlamento è uno scenario per dibattiti relativamente liberi come questo. Ma non controlla il Governo, così come non elabora una nuova Costituzione, né decide circa le prossime presidenziali. Questi compiti sono in mano alla Giunta, che ha appena annunciato che il prossimo presidente sarà eletto in giugno. In Parlamento si trova il secondo grande potere dell’Egitto post-Mubarak: i Fratelli Musulmani. Detengono la maggioranza dei seggi e sembrano convenire coi militari nell’idea che la rivoluzione debba concludersi subito e lasciare il passo a un accordo tra loro e i militari per spartire il potere. La Fratellanza, questo sì, si sforza per non allarmare gli animi con proposte sulla reislamizzazione forzata dell’Egitto. Di questo si incaricano già i Salafiti, seconda forza parlamentare, più integralista. Tale reislamizzazione non è avvenuta. Nessuno ha proibito l’alcohol nei ristoranti del Cairo né il bikini sulle spiagge del Mar Rosso. Andrebbe non solo contro i milioni di cristiani copti d’Egitto ma anche contro il turismo, su cui molti contano per sfamare la propria famiglia. Anche tra questa maggioranza che ha votato per i Fratelli Musulmani domina l’idea che la teocrazia islamista sia qualcosa che si possono permettere solo Paesi come l’Iran o l’Arabia Saudita con moltissimo petrolio nelle viscere. I rivoluzionari del 25 gennaio sono il terzo potere. Non si sono arresi, continuano a combattere per la democrazia.
Erano già così complicate le cose in Egitto quando in dicembre si è arrivati a processare 44 persone, di cui 19 nordamericani, che lavoravano per ONG degli Stati Uniti. Alcune di esse sono risultate essere vincolate al partito democratico e al partito repubblicano, oltre che a movimenti per i diritti umani e di promozione del giornalismo libero. Sono state accusate di ricevere “fondi stranieri” e di non avere “permessi amministrativi”, violando così “la sovranità egiziana”. Agli Stati Uniti non mancano certo motivi per lanciare l’allarme: non eravamo rimasti d’accordo che gli amici democratici d’Egitto dovessero aiutare nella transizione a un nuovo Stato basato sulle libertà e sui diritti? Beh, no, risponde la ministra Fayza Abul Naga, questi attivisti si dedicavano a seminare zizzania in Egitto per minare il Paese, sono dei “sovversivi”. Mu’amara, cospirazione, è una parola assai ripetuta ora in Egitto. La Giunta continua a dire che tutto ciò che di sbagliato è accaduto dalla caduta di Mubarak in poi sarebbe frutto di una innominata “congiura straniera”. Non del mantenimento degli apparati repressivi di Mubarak, non dell’azione – o inazione – della propria Giunta, che a conti fatti è formata da militari di Mubarak, ma di qualche mano occulta. Ma era “mu’amara” (cospirazione) quella dei cooperanti che sembravano dedicarsi a promuovere i valori democratici? E’ ciò che suggerisce la ministra Abul Naga, dipinta dalla stampa ufficiale, incluso il quotidiano Al Ahram, come una eroina nazionale nell’alzarsi in piedi di fronte a Washington.
Riuscirà McCain a sbrogliare questa matassa trovando un’uscita? Trionferà lì dove ha fallito alcuni giorni fa lo stesso capo della Giunta di Stato Maggiore statunitense? Al Cairo si dice che la soluzione sarà giuridica, che il magistrato incaricato di giudicare domenica prossima i cooperanti rifiuterà il caso. Nel frattempo, i Fratelli Musulmani hanno minacciato di revisionare il trattato di pace con Israele se Washington si ritrova ad adottare rappresaglie economiche per il giudizio dei cooperanti. Non vogliono perdere il colpo. Nella rivoluzione del 25 gennaio non ci sono state grida contro gli Stati Uniti e/o Israele, ma i tempi sono così confusi in Egitto che il vecchio antiamericanismo torna comunque ad essere una bisaccia a cui dare fondo nel commercio populista.
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