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Egitto: dallo Stato alla rivoluzione e di nuovo allo Stato?

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Di Abdel Monem Said. Al-Arabiya (23/08/2016). Traduzione e sintesi di Emanuele Uboldi

Nell’articolo di settimana scorsa “La rinascita tradita in Egitto” abbiamo riassunto quattro verità storiche: in Egitto, non impariamo dalla storia; non siamo mai riusciti a staccarci dalla mischia dei “paesi in via di sviluppo” per raggiungere i “paesi sviluppati”; viviamo in mezzo al conflitto tra il Mar Mediterraneo e il Mar Rosso (dove transitano religioni e culture del Vicino Oriente); in senso storico, siamo passati dall’età del buio al quella contemporanea, senza transitare dall’Illuminismo.

Comprendiamo i risultati di queste quattro asserzioni ora, attraverso questa confusione tra Stato e rivoluzione. L’Egitto ha vissuto quattro rivoluzioni nei 200 anni o poco più da quando Muhammad Ali lo ha separato dall’Impero Ottomano: la rivoluzione di Urabi (1879-1882, n.d.T.), quella del 1919, quella dei Liberi Ufficiali (23 luglio 1952) e le due di gennaio 2011 e giugno 2015, che fanno parte dello stesso fascio.

Questa confusione ci conduce alla quinta verità: lo Stato è di per se stesso conservatore, poiché deve proteggere la società. Lo Stato ha portato gli individui da uno stato iniziale di oscurità, come durante l’era ottomana, alla luce della legge e regolazione a favore delle questioni umane. La rivoluzione, al contrario, è progressiva in quanto insurrezione e abuso di tutte le condizioni che incatenano le forze e la creatività dell’uomo, tutte operazioni che non si confanno alla natura conservatrice dello Stato. Il risultato è che l’Egitto non ha conosciuto lo Stato, ma non è rimasto nella rivoluzione: lo Stato – monarchico o repubblicano – ha vietato alla società di esprimere le forze per ribellarsi, ma questa, a sua volta, ha imparato come manipolare lo Stato e quando c’è stata l’occasione di ribellarsi, i ribelli si sono affrettati a riappacificare il potere con le forze militari. Questo è comprensibile solo tramite la natura dell’élite egiziana, che ha voluto mischiare religione e Stato, progressismo e conservatorismo, originalità e contemporaneità: volevano tutto quanto entro un unico modello onnicomprensivo.

La sesta verità ci porta alla gestione della povertà e della ricchezza, che ha visto prevalere la prima sulla seconda, contrariamente al solito: è venuto a crearsi un senso di vergogna nei confronti della ricchezza e dell’arricchimento capitalistico, tacciato di opportunismo, così che equità non ha nessun altro significato che uguaglianza. Il fatto strano è che le forti divisioni tra classi sociali createsi durante la dinastia di Muhammad Ali sono state proprio quelle che hanno portato alla rivoluzione contro la stessa. La riforma agricola ha portato al declino della produzione, mentre l’industria ha portato il governo a perdere il controllo sul capitale. Questo ha trascinato all’indebitamento e alla povertà generale, e quindi alle riforme del Fondo Monetario Internazionale del 1991. Dopo 20 anni, il risultato sono state due rivoluzioni in cui tutti volevano distribuire la ricchezza, ma non i suoi frutti.

La settima verità è che abbiamo fatto bene a valorizzare le istituzioni dello Stato contemporaneo, così come i media con tutte le loro ramificazioni. Ma non abbiamo compreso a fondo nessuna di queste cose e, quando c’è stata l’occasione, il potere giudiziario non si è fatto problemi a interferire con il potere esecutivo, così come il presidente del parlamento ha deciso di chiudere i cambiavalute senza cognizione delle conseguenze (riduzione della competitività, svalutazione e fuga della forza lavoro all’estero).

L’ottava verità, che forse avrebbe dovuto essere la prima, è che molte parole del vocabolario politico hanno acquisito un significato proprio in Egitto: la libertà si è persa nel caos e l’uguaglianza ha ucciso la creatività. Per quanto riguarda la cittadinanza, sia durante la rivoluzione del 1919 che di gennaio 2011, si pensava che il sangue versato sarebbe confluito nell’arteria dell’unità nazionale, ma la realtà era assolutamente diversa da ogni desiderio. Certo da noi non è successo quello che è successo in altri Stati tra sunniti e sciiti, tra questi e i curdi o con i cristiani o zayditi, ma è difficile accostare l’odierno stato di fatto egiziano con i contenuti delle costituzioni e normative egiziane.

Se il cammino egiziano continuerà su questa strada non migliorerà, perché sappiamo che siamo fatti di una pasta unica, e una pasta senza eguali alla quale non si applica ciò che si applica a tutti gli altri. Ma questo richiede sforzi e volontà, così da superare e far conciliare Stato e rivoluzione.

Abdel Monem Said è amministratore delegato del quotidiano egiziano Al-Masry al-Youm, nonché amministratore delegato e direttore del Centro Regionale di Studi Strategici del Cairo.

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