Politica Zoom

Assad vince la sua prima battaglia

di Javier Valenzuela. El Paìs (30/03/2012). Traduzione di Giusy Regina.
Martedì 27 marzo Bashar al-Assad ha visitato la devastata città di Homs, in quella che tutto il mondo ha interpretato come una parata vittoriosa. Un anno dopo l’inizio della rivolta popolare contro il suo regime, il vincitore, almeno per il momento, è il tiranno siriano. Egli infatti, non solo è ancora al potere – cosa che non si può dire dei suoi colleghi Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e Saleh – ma ha anche portato il conflitto dove voleva. Le rivolte pacifiche e democratiche dell’inizio, che hanno seguito gli esempi tunisino ed egiziano, si sono trasformate in una guerra civile diseguale, dai colori sempre più settari.
Ed è proprio questa la situazione in cui Assad e i suoi alleati si sentono più a loro agio. Scatenano contro gli avversari tutte le unita militari e paramilitari, mostrando al mondo un’unica alternativa:  lui o il caos.
Assad non c’ha pensato due volte a reprimere le proteste col sangue e la violenza, senza rimorsi. E questo anche perché, al contrario del caso libico, la comunità internazionale non ha mosso un dito e l’occidente sta ancora chiedendosi se valga la pena o meno intervenire. Inoltre il tiranno ha avuto l’appoggio diplomatico di Russia e Cina, e quello politico e militare dell’Iran e dei suoi alleati sciiti in Libano e in Iraq. Gheddafi al contrario era rimasto completamente isolato.
All’inizio di quest’anno, l’opposizione era riuscita a creare degli spazi di libertà nelle città di Homs e Deir al-Zour, mentre i media internazionali parlavano di sostegno mediante interventi a bassa intensità, stabilendo ad esempio una no-fly zone e dei corridoi umanitari. Ma, “autorizzato” dai veti russo e cinese, lo scorso 4 febbraio Assad si è lanciato alla conquista di quegli spazi di libertà. Al prezzo di migliaia di morti, la maggior parte civili siriani ma anche alcuni giornalisti stranieri, le sue truppe sono riuscite ad impadronirsi di Homs e Deir al-Zour.
A questo punto, come osservato sarcasticamente da Patrick Cockburn di The Independent, l’Unione Europea decide di punirlo in modo così severo da non permettere più a sua moglie Asma di fare shopping a Parigi o a Roma.
A differenza di Gheddafi, Assad ha anche molto più sostegno all’interno del paese. E non solo quello della sua famiglia, della leadership, dell’esercito e dell’intelligence, ma anche quello della minoranza religiosa alawita a cui appartiene la famiglia di Assad. Anche se alcuni alawiti hanno chiesto una democrazia multi confessionale, la maggior parte crede che un’eventuale caduta di Assad si tradurrebbe in un bagno di sangue di cui essi sarebbero le vittime. Al contrario però, i commercianti sunniti, storici sostenitori del regime, stanno prendendo le distanze a causa delle sanzioni economiche internazionali che hanno influito negativamente sul loro business.
La propaganda di Assad ha incluso sin dall’inizio l’elemento confessionale: diceva infatti che la Siria è un mosaico etnico e religioso tenuto insieme dal pugno di ferro del regime e che per questo la democrazia chiesta dai manifestanti potrebbe significare il suo smembramento, con conseguenti ripercussioni regionali. E il modo di procedere di Assad ha fatto sì che la profezia si avverasse: mobilitare gli alawiti e schiacciare ferocemente gli avversari, in modo che la ribellione assumesse la veste di una rivolta militare della maggioranza sunnita contro il governo dispotico della minoranza alawita. Soprattutto dal momento che lo scorso autunno gli oppositori e alcuni disertori dell’esercito hanno formato unità di guerriglia.
Così i manifestanti urbani sono diventati gradualmente meno visibili, mentre i guerriglieri dell’Esercito Libero Siriano hanno assunto un importanza sempre maggiore. Al contempo i Fratelli Musulmani sunniti hanno guadagnato peso, entrando a far parte della “mischia” di al-Qaeda.
Intanto si è costituita una coalizione internazionale contro Assad, formata dagli Stati Uniti, l’Unione Europea (con la Francia in testa), la Turchia e la Lega Araba, il Qatar e l’Arabia Saudita. Il cosiddetto Gruppo degli Amici della Siria si è riunito a Istanbul domenica scorsa, ma considerato il suo primo incontro di febbraio a Tunisi probabilmente non porterà a null’altro se non retorica. Obama non ha alcuna intenzione di impelagarsi un un altro conflitto in Medio Oriente, e men che mai in  periodo di elezioni, l’Unione Europea è sopraffatta da problemi finanziari, la Turchia non ha più la pretesa di ricostituire l’Impero Ottomano e l’Arabia Saudita possiede già molto denaro e l’esercito serve più per sfilare che per combattere.

Assad ha perso l’appoggio della Lega Araba e questo è certamente un elemento significativo. Inoltre i leader arabi sunniti hanno gridato già mesi fa al rovesciamento di Assad. Il capitolo siriano della Primavera Araba è stato quindi delineato come una lotta tra sunniti – Turchia e Lega Araba – e sciiti – gli eterodossi alawiti siriani e i loro parenti in Libano, Iran e Iraq. E per complicare ulteriormente le cose, Israele sta valutando un eventuale attacco all’Iran.