Yemen Zoom

Yemen: terrore contro terrore

yemen

Di Ines Safi. Oumma (21/03/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Yemen HouthiLa crisi yemenita è l’ennesimo esempio di come la “guerra al terrorismo” lanciata delle potenze occidentali e mediorientali, con l’approvazione o il tacito assenso delle Nazioni Unite, provochi solo conflitti. I droni di Washington, ufficialmente contro Al-Qaeda e altre formazioni terroristiche dai contorni vaghi, colpiscono quasi sempre civili, generando rabbia e frustrazione. Il denaro con cui il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), Arabia Saudita in testa, foraggia partiti islamici del calibro di al-Islah a discapito di formazioni laiche e socialiste (soprattutto nel Sud) procura armi pronte per attentati e stragi di massa. Il sostegno dell’Iran ai ribelli sciiti Houthi, fautori della restaurazione dell’imamato mutawakkilita, ha consentito loro di conquistare una fetta di potere scatenando altre guerre. Intanto il presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, che un mese fa ha ritirato le sue dimissioni, fugge anche da Aden, bombardata da forze speciali “ribelli” dell’esercito, e chiede un intervento dell’ONU. Il Consiglio di Sicurezza si è riunito venerdì scorso in seduta straordinaria.

In risposta alla serie di attentati contro moschee sciite rivendicati da Daesh (ISIS), gli Houthi hanno occupato diverse zone di Ta’iz tra cui l’aeroporto, città dello Yemen centrale, tradizionalmente al di fuori della loro portata. Da notare che i cartelli del jihad mostrano la capacità di agire quasi contemporaneamente su fronti distanti come Iraq, Siria,Yemen, Libia e Tunisia. Il premio Nobel per la letteratura Vidiadhar Surajprasad Naipaul li ha addirittura definiti un “quarto Reich”, pari al suo predecessore per violenza e propaganda, compresa l’ossessione per il controllo capillare dei territori conquistati. La brutalità quasi caricaturale dei loro video, realizzati con tecniche cinematografiche, fa da immagine speculare alla serie di guerre internazionali scatenate nella regione (che di caricaturale e di cinematografico non hanno nulla).

Afghanistan, gli orrori di Guantanamo, dove restano ancora 200 prigionieri dichiarati innocenti ma trattenuti per timore che diffondano informazioni, Iraq (tra interventi diretti e conflitti confessionali alimentati) e lo scempio di Falluja e Abu Ghraib. Quindi la Siria, che aveva accolto un numero consistente di rifugiati iracheni, come la Tunisia aveva fatto con i profughi dalla Libia. Se la guerra in Iraq era a guida USA, in Libia sono state Francia e Gran Bretagna a guidare la coalizione che ha favorito a suon di bombe la deposizione del regime (lo stesso a cui la comunità internazionale ha “commissionato” politiche migratorie disumane). L’eco della guerra in Libia si è avvertito fino in Mali, teatro di un colpo di stato, e in Algeria, primo attentato a Tamanrasset fin dal decennio nero. In tutti questi casi l’interventismo degli “alleati” occidentali e arabi ha armato e rafforzato gli stessi gruppi che ora si ispirano a Daesh.

Tuttavia non tutti i dittatori vengono per nuocere. Lo dimostra il sostegno della comunità internazionale al presidente egiziano Abdel Fattah El Sisi, un male minore rispetto all’asse Fratelli Musulmani – Salafiti, anche se non è proprio un esempio di democrazia. Stati Uniti e Francia hanno con il Cairo importanti accordi militari (Parigi ultimamente ha venduto all’Egitto diverse fregate). C’è inoltre il caso in cui uno stesso dittatore sia prima un’utile pedina di un determinato scacchiere regionale, per poi diventare un tiranno sanguinario da defenestrare. Alcuni esempi illustri sono l’ex presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, l’ex presidente iracheno Saddam Hussein e il fu colonnello libico Muammar Gheddafi. Vale la pena dunque chiedersi se si debba considerare una costante geopolitica l’alternativa imbarazzante tra sostenere un dittatore o formazioni terroristiche.

Inès Safi è ricercatrice al Centro Nazionale di Ricerca Scientifica francese.

Vai all’originale