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Turchia: il monopolio post-elettorale di Erdoğan

Turchia AKP

Di Murat Yetkin. Hürriyet Daily News (08/07/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.

Un mese dopo le elezioni parlamentari che avrebbero dovuto innescare immediatamente una nuova dialettica politica in Turchia, il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) del presidente Recep Tayyip Erdoğan e del primo ministro Ahmet Davutoğlu, mantiene il suo ruolo egemonico alla guida del Paese.

Sebbene Erdoğan abbia più volte annunciato di dare il mandato per la formazione di un nuovo governo dopo la nomina del Consiglio dei Portavoce del parlamento (come prevede l’art. 116 della Costituzione turca), le quattro principali forze politiche non hanno raggiunto un accordo sulla composizione di quest’ultimo. La prima riunione, fissata dal nuovo portavoce del parlamento İsmet Yılmaz, si è conclusa dunque con un nulla di fatto, aumentando il rischio di un ritorno alle urne. Un’eventualità che si realizzerà se non verrà costituito un nuovo governo entro 45 giorni dalle elezioni. Scaramucce a parte, il capo del Partito Democratico del Popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu e il co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP) Selahattin Demirtaş attribuiscono la responsabilità del ritardo nell’applicazione dei risultati delle ultime consultazioni elettorali a Erdoğan, accusato di scarsa propensione alla condivisione del potere.

Alcuni osservatori avanzano l’ipotesi che il presidente turco, insoddisfatto del risultato delle ultime parlamentari, intenda procrastinare le trattative con gli altri partiti, incluso il Movimento Partito Nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli, che tuttavia ha già dichiarato di non voler partecipare ad alcun tipo di coalizione chiedendo nuove elezioni a novembre se non l’AKP e il CHP non troveranno un accordo per un’alleanza. L’obiettivo di Erdoğan, secondo alcuni, sarebbe proprio questo, nella speranza, questa volta, che il suo partito ottenga oltre due terzi dei 550 seggi del parlamento. Una vittoria che gli permetterebbe di realizzare il suo progetto presidenzialista. A corroborare questa ipotesi, Davutoğlu, che il 10 giugno si è dimesso, non ha commentato il fatto di non aver ancora ricevuto un mandato per avviare le trattative per una coalizione di governo. I suoi predecessori al contrario, lo avevano ricevuto lo stesso giorno delle loro dimissioni o, al più, il giorno successivo. Lo stesso Yılmaz, ex ministro della difesa, eletto portavoce del parlamento il 1° luglio, ha atteso quasi una settimana per chiamare l’assemblea a eleggere il consiglio dei portavoce.

Anche se Erdoğan dovesse concedere il mandato a Davutoğlu questa settimana, il dibattito parlamentare si interromperebbe prima per la festa di fine Ramadan, poi per il vertice del Consiglio Supremo delle Forze Armate (YAŞ) che si terrà dal 3 al 5 agosto, entrambe ricorrenze presiedute dal primo ministro. Intanto, il tempo passa e si approfondiscono e complicano le fratture tra i partiti di opposizione. Davutoğlu ha ripetuto più volte di accettare una coalizione con l’HDP, partito filocurdo, solo se quest’ultimo riuscirà a convincere il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) a deporre le armi, un traguardo mai neppure intravisto finora dal governo turco. Il MHP ignora la presenza in Parlamento dell’HDP, che pure occupa il suo stesso numero di scranni (80) e rifiuta di partecipare a coalizioni che lo includano. Una posizione che ha impedito finora al CHP, partito socialdemocratico, di costruire un blocco anti AKP insieme a MHP e HDP. In particolare, le discussioni per la nomina del portavoce del parlamento hanno portato a una spaccatura tra MHP e CHP. L’unica opzione plausibile diventa dunque un’alleanza tra AKP e i socialdemocratici del CHP o i nazionalisti del MHP.

Murat Yetkin è opinionista di Hürriyet Daily News.

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