Jeune Afrique (07/07/2015). Traduzione e sintesi Carlotta Caldonazzo.
Secondo Wolfram Lacher, ricercatore all’Istituto tedesco per gli Affari Internazionali e la Sicurezza, “se l’Algeria era in passato l’epicentro dei movimenti jihadisti, la Libia è dove dimora il loro futuro”. Dopo la caduta del regime del colonnello Muammar Gheddafi, le formazioni islamiche radicali si sono rapidamente ricostituite, anche grazie al sostegno sia esterno che interno, soprattutto in Cirenaica e nel Fezzan. L’attentato del settembre 2012 al consolato americano di Benghazi, costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens, ha segnato l’emergere del gruppo Ansar al-Sharia. Un marchingegno fatto di rigorismo etico e attenzione ai bisogni primari della popolazione (sanità, sicurezza), che ha guadagnato posizioni nelle regioni orientali del Paese, da Sirte a Derna, passando per Ajdabiya e Benghazi. I finanziamenti arrivano soprattutto da rapine e traffici di vario genere, ma, oltre all’economia criminale, questa organizzazione si è data una struttura politica, con capitale Derna e al vertice il Consiglio della Shoura.
Nell’ottobre 2014, gli Ansar al-Sharia hanno giurato fedeltà al califfo dei cartelli del jihad di Daesh (ISIS) al-Baghdadi. Si tratta di un organismo multietnico, che per riempire i ranghi del suo esercito utilizza manovalanza tanto libica quanto straniera, a differenza della brigata dei Martiri di Abou Salim, cui ha sottratto progressivamente terreno. Molte sue brigate, inoltre, sono costituite da Libici “formati” in Siria, come quella di Al-Battar, alleata di Daesh dal 2013. Alcune formazioni libiche vassalle dei cartelli del jihad di Daesh si sono radunate a Benghazi nel 2014, per rispondere all’ “operazione Dignità” del generale Khalifa Haftar, capo dell’alleanza anti-islamica, sostenuto dalla maggioranza dei governi occidentali e dall’Egitto. Ex comandante dell’esercito dell’era Gheddafi, durante la sua prigionia in Ciad (allora in guerra con la Libia) ha costituito un manipolo di duemila libici, con l’appoggio di Washington, per rovesciare il regime di Tripoli. Parabola già vista per altri capi di stato autoritari, prima foraggiati dalle potenze mondiali e regionali, per poi finire nella lista dei “cattivi”.
I cartelli del jihad libici, confluiti nel sistema di alleanze di Daesh, ne hanno adottato tattiche di gestione del territorio (applicazione, secondo loro letterale, della sharia ed economia criminale) e modelli di propaganda (esecuzioni coreografiche diffuse sul web). A gennaio di quest’anno inoltre, al-Baghdadi ha chiesto ai suoi “seguaci” del Sahel di riunirsi in Libia, probabilmente attratto (come le “altre” potenze mondiali) dal potenziale economico del petrolio. L’unica forza finora in grado di arginarli è Fajr Libya, l’Alba della Libia, milizia islamica alleata di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI, cartelli avversari di quelli di al-Baghdadi), che li ha cacciati da Derna lo scorso 9 giugno e controlla Tripoli da oltre un anno. A contendersi il controllo del territorio libico sono dunque gruppi caratterizzati dalla commistione di tre elementi: la maschera dell’islam politico rigorista che trae origine dal wahhabismo saudita (scuola cui si ispiravano le formazioni terroristiche algerine, in contrapposizione con la religiosità popolare), il finanziamento attraverso attività criminali e (aspetto assente in Algeria) il sistema delle alleanze tribali, che affonda le sue radici nelle culture preislamiche. Un buon motivo per scartare il conflitto armato dalla lista delle possibili soluzioni.
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