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Paralipomeni degli inni nazionali

 

In risposta alle proteste ufficiali dell’ambasciata algerina a Londra contro l’articolo sui “peggiori dieci inni del mondo”, il quotidiano britannico The Telegraph ha rimosso il pezzo incriminato dal proprio sito web esprimendo l’assoluta assenza di intenzioni offensive. Tra gli inni dei dieci paesi considerati (Colombia, Burkina Faso, Kazakistan, Repubblica democratica del Congo, Corea del Nord, Uruguay, Grecia, Spagna, Algeria e Iraq) quello algerino si era classificato quarto, attirando sul Telegraph l’accusa da parte del Ministero degli esteri algerino di “oltraggio ai simboli dello stato” e “alle lunghe sofferenze che il popolo algerino ha sopportato per conquistare l’indipendenza e la dignità di nazione sovrana”.

“Era semplicemente un articolo umoristico, ma in segno di buona volontà lo abbiamo rimosso”, si legge sulla pagina Facebook del Telegraph. Dell’inno algerino si ricordava anzitutto che il suo compositore Mufdi Zakariah lo scrisse “con il sangue sulle mura della sua cella in una prigione coloniale francese”, ma se ne rilevavano al contempo i toni antifrancesi e di celebrazione della guerra. Si potrebbe dunque obiettare che sarebbe stato cortese (per non dire corretto) da parte del Telegraph ricordare quanto sia stata sanguinosa la guerra di liberazione algerina e che gli ufficiali francesi incaricati di mettere a punto la strategia controrivoluzionaria negli anni ’70 addestravano i militari argentini impegnati nella cosiddetta guerra sporca. Un’accusa che vale anche se l’intenzione dell’autore dell’articolo era dichiaratamente umoristica. Insomma, il quotidiano britannico avrebbe ridotto gli inni dei dieci paesi in questione al livello di una canzonetta commerciale, senza alcun riguardo per la storia dei singoli popoli. Un’espressione del noto understatement britannico, che tuttavia non appartiene ad altre culture, per le quali alcuni “valori” sono sacri e intoccabili.

La vicenda pone due questioni di fondo. Anzitutto è legittimo chiedersi perché il Telegraph non abbia applicato lo stesso understatement all’inno britannico. Tra gli esempi di distorsioni polemiche degli inni nazionali del proprio paese (sia musicali che del testo) avrebbe potuto menzionare non solo Jimi Hendrix ma anche Matoub Lounès, il cantante algerino berbero che nel 1998 aveva riscritto l’inno algerino alla luce delle proteste popolari del 1988, consapevole del pericolo a cui si esponeva. Tra i suoi versi più taglienti c’era ils ont peint à la chaux l’atroce grimace de la religion et du panarabisme, sur le visage de l’Algérie. Lounès è stato ucciso nello stesso anno, ma il “suo” inno algerino circola indisturbato sul web al pari di quello ufficiale.

Altra domanda altrettanto legittima: che significato hanno oggi gli inni nazionali per i cittadini comuni? Il mondo è un “villaggio globale”, i confini valgono quasi ovunque solo per le guardie di frontiera, mentre fette sempre più consistenti di popolazione sono impegnate in problemi di sopravvivenza più che di difesa della “patria”. Il nazionalismo in questo contesto è un’ideologia residuale, o forse latente, strumentalizzata all’occorrenza per distrarre l’opinione pubblica dall’ingiustizia sociale e dagli abusi politici. Un atteggiamento mentale che non si manifesta certamente in canti patriottici ma in liti grottesche per le strade, sui mezzi di trasporto pubblici o nei negozi. Gli inni nazionali vengono scritti in momenti cruciali della vita dei paesi, di liberazione, unificazione, rifondazione o tutto questo insieme, ma a distanza di anni buona parte delle persone ne perde la consapevolezza storica. Anche perché a governare quegli stessi paesi spesso si succedono personaggi poco apprezzati (o poco apprezzabili, quando non disprezzabili). Nonostante tale desemantizzazione, qualcuno potrebbe irritarsi leggendo su un quotidiano di un altro paese (soprattutto se quest’ultimo fa parte dei “grandi” della Terra) facili ironie sull’inno del proprio. Il che non significa necessariamente che chi si irrita di ciò attribuisca un qualche valore all’inno in sé. Più frequentemente il patriottismo è una forma di fuga del singolo dal sentimento della propria sconfitta esistenziale, che sia individuale o sociale. L’uomo, animale sociale e simbolico, spesso fa scivolare sul simbolo, nella fattispecie l’inno, la propria responsabilità nel non riuscire a cambiare una situazione attuale e fattuale. La difesa un simbolo è meno gravosa della coscienza della propria condizione di miseria e del conseguente impegno per superarla.