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La Nakba palestinese e quella siriana a confronto

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Di Wissam Saade. Al-Quds Al-Arabi (14/02/2016). Traduzione e sintesi di Marianna Barberio.

Un paragone tra la Nakba palestinese e quella siriana permette di approfondire la natura di queste due tragedie. Un confronto che si caratterizza di limiti, o meglio la consapevolezza dell’esistenza di limiti a tale paragone diviene necessità fondamentale da cui trarre vantaggio, per la presenza di un collegamento tra le sofferenze dei due popoli del Levante e della restaurazione di quel pensiero alla base del movimento di liberazione nazionale proprio di palestinesi e siriani.

Gli ultimi sviluppi in merito alla catastrofe siriana, a livello locale e in campo politico, spingono più di prima a distinguere tra le due Nakba, oltre che ad una loro comparazione e alla narrazione di una storia comune. Per dimensioni di spostamento di uomini e spargimento di sangue, le atrocità della guerra siriana hanno superato di molto ciò che è avvenuto in passato nella regione. Senza dubbio l’incorporazione delle due tragedie – palestinese e siriana – permette una similitudine tra il regime siriano e lo stato sionista, dal momento che il regime di Bashar al-Assad riprende lo stesso strumento di colonizzazione interna verso il popolo siriano e si presenta come regime privo di qualsiasi tratto patriottico e non come espressione nazionale.

Tuttavia, tale confronto pone anche dei limiti. La distinzione fondamentale tra le due Nakba consiste nel fatto che il regime della morte ba’athista non avrebbe nessuno degli elementi di stabilità propri di una società radicata e di uno Stato coloniale quale quello sionista. Dato che un cambiamento dell’entità etno-settaria non influenzerebbe una trasformazione della maggioranza in minoranza o viceversa, allo stesso modo una distinzione etnica tra i siriani non può essere considerata come una mera ripetizione della contraddizione tra “chi viene da fuori” e gli abitanti indigeni.

Questo regime è riuscito a divenire un vero e proprio sistema di morte per un insieme di fattori, tra cui quello di essere un regime fondato sul principio di uno stato di guerra civile permanente in Siria; venuto meno tale principio il regime ha tentato di ripristinarlo con la creazione di una guerra civile, anche senza l’assistenza dei suoi alleati. È vero che la sopravvivenza di questo regime si misura negli anni, e infatti ben cinque anni sono trascorsi dallo scoppio di tale scontro, pari ad un intero mandato presidenziale in qualsiasi altro paese. È anche vero però che il clima internazionale ha permesso la sopravvivenza stessa del regime, in particolare con la politica di lotta al terrorismo, spostando l’attenzione dal suo obiettivo principale: la caduta del governo. Ciononostante il regime di Assad non è riuscito ad ottenere gli stessi elementi di stabilità del modello israeliano.

La divisione della Siria in una Siria “utile” sotto il controllo della maggioranza alawita-sciita, e in una Siria per metà rurale e metà desertica, si scontra con le organizzazioni jihadiste sunnite e colpisce il desiderio dei tanti sostenitori del “regime”. Tale desiderio non potrà realizzarsi solo con sostegni aerei e missili stranieri, né tantomeno approfittando della crisi delle forze di opposizione al governo, ma solo poggiando sulla custodia della componente sociale e sul carattere moderno delle milizie ausiliari, su modello della società di immigrati ebrei nella Palestina mandataria.

Vi è dunque un “idealismo antagonista” che infuria in questa guerra, che riprende vecchie disposizioni coloniali impossibili da realizzare. E proprio tale impossibilità potrebbe liberare il popolo siriano, qualora il movimento di liberazione nazionale fallisse.

Wissam Saade è uno scrittore e giornalista libanese.

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