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Dentro l’arabo incontra Ayham Hamada: “Ogni campo è la mia patria”

Ayham Hamada - A tutti i belligeranti: io non voglio morire di fame.
Ayham Hamada – A tutti i belligeranti: io non voglio morire di fame.

La prima volta che ho scritto ad Ayham Hamada, quando avevo appena trovato il Collettivo artistico “Palestina” di cui fa parte, sapete in che lingua mi ha risposto? In italiano. Come per accogliermi, farmi sentire a casa. Questo è un tratto così tipico dei siriani, dei palestinesi, che non potevo cominciare che da qui: la sua gentilezza. Essa si riflette nel modo in cui plasma le parole arabe rendendole nella forma di campi palestinesi, brevi frasi colloquiali che si fanno protesta ed immortali versi di poesie che diventano percorsi d’arte calligrafica.

Ayham mi ha parlato dei bambini che vivono la guerra in Siria, del suo amore infinito per il campo di Yarmouk, di Mahmoud Darwish e di ciò che rappresentano i suoi versi per lui. “Amati poveri, amati stranieri, siete sempre stati immensi”: da questo verso del poeta palestinese, divenuto opera d’arte di Ayham per ricordare la sua scomparsa, ha inizio il nostro secondo viaggio semantico nei dialetti arabi. Vi mostro qualcosa che vi darà un’immagine precisa dei bambini di cui parla Ayham Hamada. Il titolo del video dice: “Donne e bambini nella regione del sud muoiono di fame”

Ba’idan ‘an al-qatli wa al-siyasati – Qariban min al-itfali (Distante dall’assassinio e dalla politica – Vicino ai bambini)”: hai scelto questa frase per descrivere uno dei tuoi recenti lavori. Vi hai raffigurato un bambino che mostra un cartello scritto in arabo: credo che il suo messaggio sia scritto in dialetto, è giusto? Puoi dirci cosa dice il cartello e quel che rappresenta per te?

Sì, l’arabo che ho usato qui è colloquiale, il cartello dice “Li-kolli al-motaharibin: Ma bidi amut jaw’an“, significa “A tutti i belligeranti: io non voglio morire di fame”. L’immagine rappresenta la sofferenza dei bambini che vivono questa crisi umanitaria nel campo di Yarmouk, a causa del conflitto siriano.

Ayham Hamada - Campi - I rimpatriati - Homs (Siria), dalla serie "Ogni campo è la mia patria"
Ayham Hamada – Campi – I rimpatriati – Homs (Siria), dalla serie “Ogni campo è la mia patria”

Ho visto che dedichi spesso delle opere ai campi: Homs, Aleppo, le campagne (rif) di Damasco. “Ogni campo è la mia patria” è lo splendido titolo che hai dato a questa serie. Hai anche conferito alla tua arte calligrafica la forma del campo di Yarmouk. 

Questo campo in particolare diviene spesso protagonista dei tuoi lavori: penso alle due colombe bianche che si scambiano un piccolo seme, e che hai intitolato “L’amore a Yarmouk”. Vorrei sapere perciò che tipo di rapporto si è instaurato per te con questo campo e quale immagine ti viene in mente quando pronunci o ascolti il nome Yarmouk.

Io a Yarmouk, trentadue anni fa, ci sono nato, e per quei trentadue anni ci ho sempre vissuto. Sono stato costretto ad andarmene a causa della guerra, lasciandomi dietro la mia casa e così tanti ricordi… Quando sento qualcuno pronunciare il nome Yarmouk mi viene in mente la parola watan, “patria”.

Hai dipinto due splendide tavole dedicandole al poeta palestinese Mahmoud Darwish: in una guarda verso di noi, nell’altra siede e guarda altrove, come perso nei suoi pensieri. In quest’ultima hai scritto alcune parole arabe: vengono per caso dalle sue poesie? E che significato hanno per te, per aver scelto proprio quelle?

 

Ayham Hamada ritrae Mahmoud Darwish
Ayham Hamada ritrae Mahmoud Darwish

Proprio così, sono versi di Mahmoud Darwish. Ho unito il verso iniziale di una sua poesia che recita Amshi, Ahrul, Arkidu, As’adu, Anzilu, Asrakhu (Cammino, Trotto, Corro, Salgo, Scendo, Grido) al verso finale Asqut, A’luu, wa Ahbatu, Udmaa, wa Yaghma alayya (Cado, Mi alzo, E crollo, Sanguino e Perdo i sensi). Ogni parola è un verbo al presente che incarna diverse e contradditorie azioni e sensazioni. Sono parole molto famose e ho sentito che riuscivano ad esprimere il caos dei sentimenti e dei pensieri impressi nella mia mente.

I bambini palestinesi sono spesso protagonisti dei tuoi dipinti. In genere li ritrai mentre indossano una kefiah: tutto ciò che possiamo vedere dei loro piccoli volti sono gli occhi. Sono bambini, ma si trovano già coinvolti in una lotta. So che tu, poi, prendi parte a dei workshop artistici dedicati proprio ai bambini. Mi piacerebbe sapere qualcosa in più della tua esperienza con loro e qual è la differenza, se ce n’è una, tra i bambini con cui lavori e quelli che ritrai.

Ho avuto l’occasione di lavorare con bambini che si sono trovati a vivere il dramma della guerra. Ho provato a dar loro un sostegno, aiutandoli ad esprimere ciò che sentivano attraverso la pittura. Non vedo grosse differenze tra questi bambini e quelli che io ritraggo: in entrambi i casi, stanno soffrendo per la guerra. Ed è questa sofferenza che ho cercato di imprimere nei miei dipinti.

C’è un giardino che ho immaginato, chiamandolo “giardino parlato”, perché ogni pianta in esso coltivata sarà una parola presa in prestito dai dialetti arabi. Ci faresti il dono di una parola palestinese che vuoi veder crescere nel nostro “giardino parlato”? Ne avremo grande cura!

Voglio donarvi la più famosa parola palestinese che viene usata nei campi: khaya, fratello, e khayta, sorella. Il valore muta un po’ a seconda che tu la pronunci rivolgendoti a qualcuno di molto vicino o in modo più formale. Rappresenta davvero un alto grado di intimità ed amicizia, per noi.

Allora grazie mille per tutto… khaya!

Claudia Avolio, Ayham Hamada

Ayham Hamada (pagina Facebook): https://www.facebook.com/ayham.hamada?fref=ts