sa’āda, felicità. Sentite, dall’inconsueto modo in cui la pronuncio, quale felicità intendo sondare? Dovreste figurarvi un essere umano, solo, per la strada. D’un tratto si ferma, sente qualcosa di strano, e crolla. Non mentre è lì, solo, in mezzo alla strada, ma dopo – è dopo che crolla: nei giorni a venire, nell’assurdità di ciò che è accaduto, che lo afferra e non lo lascia più andare. sa’āda, felicità. Avete sentito, adesso? Dovreste immaginare di avere il corpo così stanco e stravolto da non riuscire più a sentirlo come vostro. Un giorno vi sedete contro il muro, le gambe al petto, e in quella assurda debolezza che non sapete spiegare vi afferrate un braccio, lo portate alla bocca, e lo baciate. Perché vi siete rimasti vicini, e se manca chi avrebbe dovuto baciarlo al posto vostro, allora sa’āda, la felicità, trova solo voi ad accoglierla, solo il contatto della vostra bocca con la vostra stessa pelle a produrre un suono buffo simile alla nascita che come la nascita vi avrebbe riportati sulla Terra.
Non credete nella felicità? Potete scegliere di essere, anziché sa’īd (felice), sā’idatun, un affluente del fiume. Una radice che ci fa scorrere fino al mare, se ne abbiamo voglia, aiutando i fiumi a convogliare più acque, più corsi di vita per ogni vita che noi affluenti viviamo. Mai, mai mi ero soffermata a considerare che la lingua araba ha fatto incontrare il concetto di felicità con l’idea di aiutare qualcuno. Il verbo – ora uno dei miei più cari – di quarta forma, as’ada, esprime questo: aiuti qualcuno? Allora lo renderai anche felice.
Il musāid, proprio lui, è colui che aiuta gli altri. Nella mia testa c’è Nabil al-Saed, che “si dedica ai rifugiati e all’assistenza ai feriti e li mette in contatto coi media stranieri”, come ci viene narrato. Si tratta di uno dei protagonisti del reportage di Doc3 per la regia di Antonio Martino, dedicato al primo anno della rivoluzione siriana. È riandato in onda qualche sera fa, per non dimenticare come tutto ha avuto inizio. Nabil al-Saed aiuta i feriti che arrivano nella città turca di Antakia: “Proviamo ad aiutarli, ad alleviare il loro dolore, aiutiamo i rifugiati che arrivano offrendo aiuti umanitari”. C’è un giovane uomo steso su un letto d’ospedale, racconta che si trovava vicino alla posta quando una bomba è esplosa. Oltre alle escoriazioni sul corpo e sul viso, ha gli occhi gonfi, così contusi da non riuscire quasi a tenerli aperti. Il breve dialogo che tiene con l’uomo che lo intervista racchiude per me il senso di as’ada, l’aiutare qualcuno che per la lingua araba è anche il renderlo felice:
“Quelle sono ustioni?”
“Sì, sono ustioni, esatto”
“Che Dio ti ripaghi per questo”
“Ho un solo figlio e ancora non l’ho visto”
“Che Dio lo protegga”
“Che Dio protegga anche te”
“Con il volere di Dio lo rivedrai”
“Lo spero tanto”
“Lo rivedrai, ti dico, con i tuoi occhi, se Dio vuole”
“Dio ti dia la pace”
È strano anche solo immaginare di provare a descrivere quanta dolcezza racchiudono questi scambi parlati di umanità, sembra davvero che entrambi, nelle loro parole tanto amorevoli, si lancino una pallina-che-cura l’un l’altro, e ognuno la ripassi all’altro subito dopo averla afferrata con la presa del cuore. Si sente a pieno la natura del verbo che avvia la radice, sa’ida, essere felice, e anche fortunato. Quanto ha ragione.
Questa radice mi ha spinta a pensare, per un attimo solo, che come esiste Asad, esiste anche qualcuno che è As’ad, “più felice” in arabo, o che “più felice” vuole diventarlo. Esiste qualcuno che, in quanto As’ad, “più felice”, non ha alcuna ragione per rendere infelici gli altri. Sento, solo per un istante, che nessun Asad può impedirgli di sentire questo dentro, di tentare di portarlo in superficie. Essere As’ad è più difficile che essere Asad, quella ‘ain al centro della parola, che costringe a compiere uno sforzo maggiore nel pronunciarla, sembra esprimere seppure in infinitesima parte ciò che può voler dire accettare qualunque prezzo pur di essere felice.
Ha provato a darmi una visione di sa’āda, la felicità, Abu-l-‘Ala al-Ma’arri, il poeta e pensatore siriano che come ormai sapete io amo moltissimo. In una delle sue quartine, ha scritto: “Se sarai alleato di ricchezza e potere / Preoccupazioni con artigli correranno nude sulla tua anima / Ma se sarai debole, povero ed ignorante / La tua sposa sarà la felicità”. Nessuno che abbia in sé anche solo una lettera che compone la radice s-‘-d può dirsi debole, né povero né tantomeno ignorante. Ma quello che forse al-Ma’arri intendeva dire è che, come ho cercato di esprimere all’inizio, sa’āda non è sempre quello che si crede sarà.
C’è un racconto di Naguib Mahfouz, lo scrittore egiziano che amo quanto al-Ma’arri, dal titolo “L’Uomo Felice”. Inizia proprio dicendo: “Svegliandosi si scoprì felice e se ne chiese il motivo” (è tradotto splendidamente da Clelia Sarnelli Cerqua per Tullio Riponti editore, nella raccolta di racconti “La taverna del gatto nero”). E a un certo punto offre una descrizione della felicità molto complessa: “Sì questa è la felicità: un elemento forte, dotato di un suo peso e di una sua dimensione, internamente coeso, e, al tempo stesso, una forza fluida, priva di restrizione, rarefatta come l’aria, violenta come una fiamma, penetrante come un profumo, soprannaturale e quindi destinata a non durare”.
Da quando sono stata quell’ “essere umano, solo, per la strada”, da quando ho scoperto cosa voleva dirmi la lingua araba con questa radice, non vedo più la felicità nello stesso modo. E non so spiegarvi come la vedo, ma ho voluto lo stesso tentare di scriverlo, perché la radice s-‘-d sappia che noi, ora, abbiamo scoperto la natura che celava da tanto e che aspettava solo vi posassimo il nostro sguardo per renderla di nuovo viva. E, forse, sa’īda, felice.
Claudia Avolio
Grazie di cuore a Lorenzo Declich che, condividendo il video di Doc3 sulla Siria, mi ha permesso di imbattermici e di trattenere il fiato per tutti i 50 minuti della sua durata. Lo trovate qui, dal 4° minuto:
Doc3 di Alessandro Robecchi (regia del reportage sulla Siria: Antonio Martino)