L’Osservatore Romano (06/10/2015). Di Zouhir Louassini.
Era come se il destino volesse realizzare il suo desiderio. «Il bene si fa e si dimentica» diceva. La malattia, nei suoi ultimi anni di vita, gli ha fatto dimenticare tutto. Le persone che, come me, l’hanno conosciuto e alle quali ha cambiato completamente la vita, invece, se lo ricordano; per sempre.
Io dovevo insegnargli la lingua del Paese dove era arcivescovo; lui mi ha insegnato ad amare l’altro senza aspettarsi nulla in cambio. «La vostra religione è molto difficile per me», gli dicevo scherzando. «Se qualcuno mi dà uno schiaffo io non posso porgergli l’altra guancia. Come minimo, gli do due schiaffi!» replicavo.
Sorrideva, cosciente che il cammino di Cristo è difficile. Pochi riescono a capire il senso di una fede che ha messo l’essere umano al centro dell’universo. Pochi, inclusi i cristiani, soprattutto i cristiani, si rendono conto di quanto è difficile e faticoso seguire la via di Gesù, per quanto possa sembrare molto chiara e semplice. Il mio amico francescano ci provava e lo faceva, con i gesti non con le parole.
Un giorno mi chiede di accompagnarlo in macchina, una vecchia Simca, se non ricordo male. È colma di roba, vestiti, alimenti, cereali per bambini. Seduto nel sedile al suo fianco, noto che è “in borghese”: nessuna croce né anello. Niente collare bianco. Nulla che possa rivelare chi sia. Guida tra le strade di Tangeri e mi rendo subito conto che si sta dirigendo verso Dchar Bendhibane, un quartiere periferico e malfamato, dove non ero mai stato prima. Povertà ovunque, sentieri fangosi e strade difficili da attraversare. Padre Antonio — così lo chiamavo — prosegue a fatica il suo tragitto fino ad arrivare in una stradina “dimenticata dal Signore”, una bidonville delle peggiori.
È evidente: non è la prima volta che viene qui. Una signora di un’ottantina d’anni esce di casa, seguita da tutta la famiglia. Subito dopo, un susseguirsi di porte che si aprono e tanta gente che inizia ad avvicinarsi a lui. Lo abbracciano, lo salutano. Io mi metto da parte guardando la scena, stupefatto. Mi chiedo come abbia fatto a creare amicizie in una zona tanto pericolosa che nemmeno la polizia si azzarda a frequentare. Lui è tranquillissimo, io molto meno.
La vecchietta mi abborda sorridendo e chiedendomi se sono io il suo traduttore. Ho capito perché mi ha portato. Serve qualcuno per spiegargli tutto quello che dicono. Padre Antonio si difendeva con l’arabo parlato in Marocco, ma non riusciva a mantenere una lunga conversazione.
Con una diligenza quasi surreale, in quel luogo, la gente si mise a distribuire tutto quello che aveva portato Antonio, come tutti lo chiamavano. C’era tanta povertà ma anche tanta dignità. Era chiaro che non sapevano chi fosse. La signora ci ha invitato a “casa” sua. Tè verde e rghayef, una specie di crèpe marocchina, pesante e piena d’olio, che piaceva all’arcivescovo. Si parlava del più e del meno e io traducevo quando serviva. In nessun momento si è parlato di religione. Eravamo in quel momento solo donne e uomini e bambini. Esseri umani, senza altri aggettivi. Era bello.
Spero che padre Antonio mi perdoni, dall’aldilà, per aver raccontato questo episodio della sua vita. Lui non voleva che si sapesse. Gli eventi di questi ultimi tempi — immigrati, rifugiati, muri, razzismi, fanatismi — servano come attenuanti per giustificare questa mia testimonianza, “non autorizzata” da una persona che non è più tra noi. Uomini come l’antico arcivescovo di Tangeri ci danno una lezione di vita e ci insegnano come interpretare le parole di Gesù.
Io che sono di cultura musulmana ho imparato da padre Antonio Peteiro che le religioni, se non servono ad avvicinare gli esseri umani, sono inutili. È grazie a lui e a persone come lui, che ho imparato a non confondere religiosità e spiritualità. Ho imparato soprattutto che la fede non può diventare mai un’ideologia, se non si vuole che svanisca il suo significato più umano e più profondo.
Pubblicato su L’Osservatore Romano (06/10/2015).