Di Hilmi Musa. As-Safir, (12/02/2014). Traduzione e sintesi di Omar Bonetti.
A settembre, sotto gli auspici del segretario di Stato americano John Kerry, sono riprese le negoziazioni tra palestinesi e israeliani. Molti osservatori hanno gli occhi puntati su queste ultime settimane, soprattutto in vista dell’incontro del 3 marzo tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu, che il giorno prima presenzierà al forum annuale della lobby American Israel Public Affairs Committee (AIPAC). Altri, tranne il team americano guidato da Martin Indyk, sono convinti che nulla si è smosso in sette mesi di negoziati, mentre, molti altri ancora, soprattutto israeliani, nutrono timore (o speranza) per l’evoluzione della situazione, come Tzipi Livni, il ministro della Giustizia israeliano, rivelando che i palestinesi, alla fine di questo nuovo round di negoziati, riconosceranno Israele come “Stato ebraico”, cioè, la precondizione di pace imposta dagli israeliani.
L’11 febbraio, il quotidiano israeliano Maariv ha chiarito che Kerry intende inserire nell’accordo quadro, che si sta sforzando di definire, questa precondizione, che secondo due fonti, di cui una è americana, esprimerà al meglio la reciprocità tra le due parti: due Stati nazionali separati, uno per il popolo ebraico e uno per il popolo palestinese. Inoltre, sembra che la questione dei confini stia per essere conclusa. Durante i negoziati, i palestinesi e gli israeliani hanno fatto riferimento alle linee del 1967, con lo scambio di unità territoriali e insediamenti. Secondo il giornale israeliano, l’accettazione di questo scenario da parte degli Stati Uniti rappresenta una vittoria aggiuntiva per Israele. Infatti, i palestinesi potrebbero trovarsi d’accordo su questo, ma è chiaro che, così, Israele sarà tenuto a espandere gli insediamenti sul suo suolo, proibendo la costruzione in territorio palestinese.
Ad ogni modo, è improbabile che Kerry avanzi un accordo quadro a Netanyahu prima del suo viaggio a Washington e, secondo lo stesso giornale, continuano a esserci divergenze sulla questione di Gerusalemme e della sicurezza. I palestinesi, invero, hanno chiesto che Gerusalemme sia riconosciuta come capitale dello Stato palestinese, ma Netanyahu preferisce aspettare che siano gli americani per primi a riconoscere queste aspirazioni palestinesi. Invece, per quanto riguarda la questione della sicurezza, anche se i palestinesi hanno accettato la presenza israeliana per cinque anni nella Valle del Giordano (gli israeliani insistevano per dieci), né la Giordania né Israele sono disposti ad accogliere la proposta di collocare le forze della NATO nella regione dopo il ritiro d’Israele.
Interessante è anche la posizione dell’Unione europea, che non è disposta ad adottare il documento americano se questo coinvolge la revisione delle sue posizioni riguardo a Israele. Inoltre, dei messaggi europei rivolti agli Stati Uniti hanno suggerito di favorire il diritto di ritorno. Agli europei, infatti, interessa che le formulazioni dell’accordo siano delle misure effettive e non il frutto di un documento ambiguo e non vincolante. Non è un caso, infatti, che i palestinesi vedano il documento americano sbilanciato dalla parte degli israeliani, e, senza emendamenti, Abu Mazen non potrà accettarlo in alcun modo.
Infine, mentre Ron Dermer, l’ambasciatore israeliano a Washington vicino a Netanyahu, difende Kerry dalle accuse delle autorità israeliane, degli ebrei americani e dei sostenitori d’Israele, un inviato di Walla!, un portale web israeliano di notizie, ha chiarito che secondo gli americani un compromesso riguardo Gerusalemme causerà un terremoto politico che Netanyahu non saprà affrontare.
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