Ziyad Abd al-Samad – Dar al-Hayat (03/04/2012). Traduzione di Carlotta Caldonazzo
Tra le priorità dei governi sorti dopo le “rivoluzioni arabe”, da quanto si legge nei loro programmi, un posto di primo piano è riservato alle questioni economiche e sociali. La loro ascesa al potere infatti è il risultato delle rivolte giovanili, delle proteste dei lavoratori e delle manifestazioni popolari contro il deterioramento delle condizioni di vita in conseguenza della povertà e della disoccupazione dilagante. Dunque è necessario che tra i dossier economici e sociali i programmi di sviluppo rurale abbiano un ruolo chiave all’interno delle politiche di questi governi, anche perché le rivolte spesso sono partite proprio dalle campagne per poi approdare nelle città e assumere una portata nazionale.
Lo sviluppo del settore agricolo è di fondamentale importanza per lo sviluppo generale di un paese, soprattutto per quanto riguarda le aree rurali. Secondo un rapporto della Commissione economica e sociale per l’Asia occidentale (Escwa, organismo delle Nazioni Unite con sede a Beirut) di inizio 2012, nelle politiche future un’attenzione particolare dovrà essere dedicata ai settori produttivi, in particolare all’agricoltura.
Tuttavia la concezione tradizionale dell’agricoltura come settore meramente economico è riduttiva, poiché non tiene conto delle sue dimensioni sociali, quindi impone di stimare l’importanza di tale settore a seconda della sua incidenza sul reddito nazionale e del suo peso all’interno dell’economia. Malgrado l’importanza di queste due questioni, rimane fuori l’aspetto sociale dell’agricoltura e il suo ruolo nello sviluppo rurale che ne è il fondamento. La maggioranza dei paesi arabi si ostina a trascurare il settore agricolo oppure , quando si accorge della sua importanza, si limita ad aumentare lo stanziamento di fondi senza stabilire strategie nazionali o politiche per promuoverlo. A partire dalla sua definizione come settore a contempo economico e sociale. Un esempio, il piano nazionale per lo sviluppo sociale elaborato dal Ministero degli affari sociali in Libano all’inizio del 2011, che ha omesso del tutto il settore agricolo, quindi anche le politiche di sviluppo rurale. In tal modo il Ministero dell’agricoltura attualmente sta elaborando un piano nazionale per promuovere il settore agricolo senza alcuna connessione con gli impegni del Ministero degli affari sociali.
Le crisi economiche mondiali emerse nel 2007, una crisi finanziaria che si è acuita contestualmente con l’aumento vertiginoso dei prezzi dei generi alimentari e con la speculazione su di essi, hanno attirato l’attenzione su due questioni “concettuali” la cui importanza non era mai stata notata. La prima è legata ai modelli di sviluppo seguiti negli ultimi decenni, che prescrivono di concentrare gli sforzi sul raggiungimento della crescita economica al fine di generare opportunità di lavoro che contribuiscano alla lotta contro povertà ed emarginazione sociale. Un modello che trascura l’importanza della qualità della crescita economica e dei settori che la producono. Nessuno spazio dunque per i settori produttivi, tra i quali quello agricolo, e soprattutto per le grandi difficoltà di trovare acqua per irrigare i campi: scarsità di risorse idriche in alcuni paesi arabi, mala gestione in altri. Tutto questo a causa della mancanza di politiche che garantiscano la distribuzione dei ricavi della crescita a favore della società e la loro circolazione senza che le ricchezze si concentrino nelle mani di una cerchia ristretta di beneficiari. LA distribuzione dei ricavi della crescita avviene attraverso una politica fiscale equa e un sistema di servizi cui l’accesso sia garantito per tutti coloro che ne hanno diritto. Si hanno prove evidenti del fatto che la concentrazione della crescita nei settori finanziario, immobiliare (compravendita e affitti) non porti ai risultati sperati e non garantisca sostenibilità e stabilità.
La seconda questione sollevata dalla crisi economica mondiale è la necessità di partire dagli sforzi per la sicurezza alimentare per arrivare al principio della sovranità alimentare, che richiede un profondo cambiamento negli approcci e nelle politiche dei singoli paesi. Infatti la sicurezza alimentare dipende dall’accesso da parte dei cittadini ai generi alimentari primari, indipendentemente dalle loro fonti, ma la crisi mondiale che ha causato l’aumento dei prezzi e la speculazione ha confermato che un tale ‘approccio è fragile e insostenibile. La sovranità alimentare invece si fonda su politiche che non si accontentano di fornire cibo, ma sono imperniate sulla produzione di una data percentuale di generi alimentari e sull’identificazione di tipi e qualità di cibi adatti alla cultura locale. Tali politiche dunque contribuirebbero al progresso del settore agricolo fornendo posti di lavoro in più ai cittadini e innescherebbero lo sviluppo delle aree rurali diminuendo la pressione della migrazione dei contadini nei centri urbani.
Una questione che potrebbe ostacolare il progresso del settore agricolo e ritardare il cammino verso gli obiettivi dello sviluppo e della sovranità alimentare è la liberalizzazione del mercato agricolo, con i suoi effetti sulla sicurezza alimentare. Un dibattito sorto con la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a metà degli anni ’90 e reso più urgente dalla proliferazione degli accordi di libero scambio, sia regionali che bilaterali. A tal proposito esistono due scuole entrambe di portata internazionale. Secondo la prima il settore agricolo è un sistema il cui sviluppo si fonda sui meccanismi di mercato e sul loro ruolo nell’aumento delle rendite. Dunque il commercio libero e gli investimenti diretti si tradurranno nel progresso del settore agricolo e nella produzione di reddito. La seconda scuola sostiene invece che il settore agricolo sia uno dei diritti dei cittadini, per via delle sue dimensioni sociali e culturali e del suo ruolo economico e produttivo. Un settore che costituisce dunque una parte del sistema di diritti che include l’accesso al cibo e la sovranità alimentare. Pertanto non è solo un mezzo o un meccanismo per aumentare le rendite, bensì un diritto che deve essere garantito ai cittadini.
Per chiarire questi due approcci bisogna tornare al dialogo che alla fine dello scorso anno ha impegnato, attraverso messaggi e scambi di dati, il Relatore speciale per il diritto al cibo Olivier De Schutter e il Direttore generale del Wto Pascal Lamy. Schutter ha pronunciato la sua ultima relazione sul diritto al cibo durante l’ottava conferenza ministeriale del Wto nel dicembre 2011. Secondo tale rapporto, l’attuale sistema commerciale non garantisce il diritto al cibo, ma conduce alla sua violazione, dal momento che promuove gli investimenti esteri senza conferire l’importanza necessaria alle priorità e agli interessi dei singoli stati per la realizzazione della sicurezza alimentare. Un sistema, continua il rapporto, che al contrario pone l’impegno dei governi nella salvaguardia degli investimenti piuttosto che nella tutela degli interessi dei cittadini. Di conseguenza bisogna riconsiderare il sistema commerciale affinché operi in vista dello sviluppo e protegga gli interessi nazionali. E’ necessario dunque un sistema commerciale equo che contribuisca a uno sviluppo fondato sui diritti umani.
Attualmente una privatizzazione su larga scala dei terreni agricoli è stata già messa in atto nella maggioranza dei paesi arabi, sia in quelli meno sviluppati (Sudan,Yemen), che in altri (Egitto), dove le terre sono state vendute o affittate per molti anni nel quadri di contratti siglati dai rispettivi governi. Non sono state adottate decisioni vere e proprie nella privatizzazione, né sono esistiti meccanismi trasparenti alla base dell’approvazione dei contratti tenendo conto degli interessi nazionali, dei piccoli agricoltori e degli investitori locali. Al contrario tali contratti sono stati stipulati da sistemi in cui la corruzione dilaga e l’intera struttura statale si fonda su meccanismi clientelari. Si tratta della cosiddetta “rapina delle terre” (land grabbing).
Purtroppo questi paesi hanno firmato accordi di libero scambio, alcuni dei quali con più parti, come il Wto o il partenariato euro-mediterraneo, mentre altri sono di natura bilaterale. Accordi che proteggono i diritti degli investitori, anche quando vadano a discapito degli interessi nazionali o ledano gli interessi dei piccoli agricoltori, in contrasto con il principio di sovranità alimentare. Il Sudan ad esempio ha firmato 28 accordi di libero scambio, tra cui 12 con paesi arabi, mentre il governo possiede il 95% dei terreni coltivati.
Un chiaro esempio della perdita da parte dello stato dello spazio politico necessario è costituito dalle posizioni, in Egitto, del Ministro della cooperazione internazionale e della pianificazione e del Ministro delle finanze. Entrambi hanno ribadito più volte che il governo egiziano non è in grado di applicare le sentenze del tribunale amministrativo, che ha stabilito l’abolizione delle privatizzazioni attuate durante il regime di Hosni Mubarak, poiché non rispettano le norme fondamentali in materia di trasparenza e prezzi e violano i diritti dei cittadini. Il numero di aziende che hanno investito beneficiando della privatizzazione arriva a 200, di cui solo 4 hanno fatto ricorso all’Organizzazione internazionale per l’arbitrato (organo della Banca mondiale), citando in giudizio il governo egiziano e chiedendo un risarcimento di un miliardo di dollari. Il governo egiziano nella fase attuale non sarebbe dunque in grado di sborsare cifre simili, anche se la sua politica ha provocato l’esodo delle migliaia di famiglie egiziane che traevano sostentamento da terreni passati per la maggior parte in mano a grandi imprese immobiliari. Di queste poi alcune si sono convertite in aziende agricole che hanno fatto degli agricoltori lavoratori e braccianti.
Tre sono dunque le questioni fondamentali:
1- Gli accordi di libero scambio sollevano domande su come tutelare il diritto dei piccoli investitori, i diritti dei cittadini e su come garantire la sicurezza alimentare o la sovranità alimentare. Soprattutto in un momento in cui alla stipula dei contratti manca la trasparenza e la partecipazione dei depositari di tali diritti fondamentali.
2- Gli accordi sul libero scambio nell’agricoltura e nell’investimento pongono questioni su come applicare le leggi e le politiche locali di tutela dei diritti dei cittadini (contadini e investitori locali), che beneficiavano delle terre in seguito privatizzate e mantenute dal governo o vendute a investitori stranieri (la maggior parte di queste terre non è registrata oppure si tratta di appezzamenti collettivi venduto a prezzi stracciati).
3- I meccanismi internazionali dell’arbitrato e della soluzione delle controversie, che salvaguardano gli interessi degli investitori stranieri, portano alla marginalizzazione dei diritti dei cittadini locali, danneggiato dalle politiche di liberalizzazione del commercio, dalle pratiche dell’economia di mercato e dal dilagare della corruzione associata con la privatizzazione, in assenza di trasparenza e di qualsiasi possibilità di imporre un rendiconto davanti alla giustizia.
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