La Mauritania e la lotta contro la schiavitù

Articolo di Silvia di Cesare

La Mauritania è il Paese con il più alto tasso di schiavi del mondo, “eppure non sa nemmeno cos’è la schiavitù”. Così l’antropologo Kavin Blase riassumeva la situazione mauritana nel suo libro “I nuovi schiavi. La merce umana nell’economia globale”.

In effetti nonostante la schiavitù sia stata abolita nel 1981, in Mauritania 155,600 persone vivono come schiavi, il 4% della popolazione secondo le stime del rapporto di GSI (Global Slavery Index) del 2014. É un fenomeno presente sia nelle zone rurali che nelle città e colpisce prevalentemente le donne.

La società mauritana è costituita da 3 gruppi principali: i mori bianchi, discendenti degli arabi arrivati nella regione nell’XI secolo, i mori neri o Haratin di origini africana e gli afromauritani. Nonostante la netta minoranza numerica, i mori bianchi gestiscono il potere economico e politico del Paese. Gli Haratin erano gli schiavi, poi affrancati (il nome significa proprio “colui che è stato liberato dalla schiavitù”).

Lo status di schiavo in Mauritania può essere descritto come il possesso di una persona come una proprietà privata. É una forma di schiavitù che toglie ogni forma di potere all’essere umano: lo status si passa da generazione in generazione, gli schiavi non hanno il permesso di possedere una terra o altre risorse,  non hanno accesso all’educazione e, nonostante la schiavitù non sia direttamente legata alla religione, questa è spesso usata come giustificazione alla pratica (secondo gli attivisti che lottano contro il fenomeno gli Imam continuano a predicare in favore della schiavitù).

Negli ultimi decenni è cresciuta la consapevolezza sociale del fenomeno. Le associazioni per la difesa dei diritti umani e contro la schiavitù prendono sempre più piede nel Paese, tanto da incutere timore alle autorità che vedono messa a rischio la “stabilità” economica e sociale.

Nel novembre del 2014 tre attivisti sono stati arrestati mentre protestavano contro la schiavitù. Il 21 agosto si è aperto il processo di appello per il presidente dell’Ira, Biram Dah Abeid, e per il vicepresidente, Brahim Bilal Ramdane, condannati a 2 anni di prigione per aver organizzato una manifestazione non autorizzata.

Biram Dah Abeid leader dell’organizzazione contro la schiavitù, ha portato alla ribalta la lotta del suo movimento con la sua candidatura a presidente del Paese nel giugno del 2014.

In questo contesto è stata accolta con favore dalla comunità internazionale la promulgazione di una nuova legge contro il fenomeno. La nuova legge raddoppia da 10 a 20 anni la pena per il reato di schiavitù e istituisce nuovi tribunali speciali.

Un nuovo strumento giuridico non è però sufficiente a sradicare il fenomeno soprattutto dal punto di vista sociale. Secondo il Relatore Speciale, Urmila Bhoola, nominato dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite per monitorare e riferire sulle forme contemporanee di schiavitù, per risolvere il fenomeno è necessario mettere in atto “un approccio olistico per sradicare la schiavitù, combinando l’approccio penale con misure volte ad affrontare le cause alla radice, garantendo programmi per la protezione delle vittime, l’assistenza e l’integrazione socio-economica al fine di fornire loro mezzi di sussistenza alternativi”.

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