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Iran, Sattar Beheshti, il blogger che non voleva tacere

Io, Sattar Beheshti, sono stato arrestato il 30 ottobre 2012 dalla polizia informatica a casa mia, senza un mandato e durante i due giorni di interrogatori sono stato sottoposto a varie forme di aggressione, percosse e insulti a me e mia madre, oltre a  calci e pugni sulla testa e sul corpo. Ora, il 1° novembre, la polizia informatica, ancora una volta, mi ha chiamato per un interrogatorio e voglio annunciare che qualunque cosa mi accada la polizia informatica deve essere ritenuta responsabile. Durante le 12 ore in cui sono stato nella camera 2 della sezione 350, gli altri detenuti nella stanza hanno visto i segni di tortura sul mio corpo e io l’ho riferito al medico legale due volte e ora vi sto rendendo la mia relazione chiedendovi di approfondire la questione”.

Questa è l’agghiacciante denuncia che il blogger iraniano Sattar Beheshti scriveva poche ore prima della sua morte nel carcere di Evin in Iran e che il sito Kaleme ha reso pubblica (versione in inglese da radiozamaneh).

Già il 29 ottobre scorso, Sattar aveva denunciato con un post su facebook le intimidazioni ricevute per la sua attività antigovernativa: “Ieri mi hanno minacciato e mi hanno detto di dire a mia madre che presto dovrà vestirsi di nero perché mi rifiuto di tenere chiusa la mia bocca larga”.    

E cosi è stato. Il 6 novembre, la madre di Sattar si è vestita di nero, dopo aver ricevuto una comunicazione dal carcere che non lasciava più alcuna speranza:“Domani venite a riprendervi il corpo, comprate una tomba e non rilasciate interviste”.

Un dissenso espresso sul web dunque, che non è sfuggito alla FATA, la polizia informatica iraniana che ‘vigila’ sulla sicurezza nazionale monitorando le attività online degli utenti. Sulla morte del blogger è stata avviata un’inchiesta e il vice Presidente del Parlamento iraniano, Mohammad Hassan Aboutorabi, ha assicurato che i risultati verranno resi pubblici. E appena due giorni fa, i primi cauti responsi riportati dalla BBC: “La causa principale della morte del signor Beheshti potrebbe essere uno shock fisico – causato dalla forza brutale applicata a parti sensibili del suo torso – o una pressione psicologica”, ha reso noto l’ufficio del procuratore di Teheran, e da un comunicato dell’Agenzia di Stampa della Repubblica Islamica (IRNA) si apprende: “Non è possibile determinare la causa esatta della morte ma quella più probabile potrebbe essere uno shock”. Secondo i siti web d’opposizione Saham news e il su citato Kaleme, testimoni all’interno del carcere avrebbero riferito di aver visto Sattar con ferite a braccia, gambe e faccia. La madre non ha potuto vederlo, né partecipare al suo funerale e ora, accusa apertamente le autorità di averlo ucciso e di aver messo in atto nei confronti della sua famiglia una campagna intimidatoria: “Non ho paura. Non posso accettare che mio figlio sia morto per cause naturali. Mio figlio è stato ucciso. E’ andato in carcere sulle sue gambe e ci hanno dato il suo cadavere”. E’ il dolore di una madre che sfida la paura e le intimidazioni, che chiede giustizia pur sapendo che potrebbe pagare un prezzo molto alto. La famiglia di Sattar infatti, dopo la sua morte, avrebbe subito controlli e pressioni per evitare contatti con i media. “Perché non hanno permesso che lavassimo noi il corpo?” – ha aggiunto la madre,  riferendo, inoltre, che il lenzuolo che copriva il corpo di Sattar era insanguinato.

Diversi dunque, gli interrogativi su questa morte che ha scosso tanto gli iraniani quanto la comunità internazionale. Il parlamentare iraniano Ahmad Bakhshayesh, criticando gli ufficiali giudiziari per come hanno gestito la morte del blogger in carcere, ha rivolto al Parlamento una domanda più che emblematica:“Perché nel nostro paese i prigionieri politici entrano in carcere in verticale e ne escono in orizzontale?

Human Rights Watch, l’organizzazione non governativa che da anni si batte per la difesa dei diritti umani, oltre a chiedere di far luce sulla vicenda, denuncia dati allarmanti: su 15 persone morte nelle carceri iraniane dal 2009 a oggi, stando a quanto riferiscono testimoni e familiari, ben 13 hanno perso la vita a causa delle torture subite in carcere. E dal sito dell’organizzazione, il monito di Eric Goldstein, vice direttore di HRW per il Medio Oriente, non lascia spazio ad equivoci:“Con più di una dozzina di morti negli ultimi quattro anni, le carceri iraniane si stanno rapidamente trasformando in trappole mortali per i detenuti, comprese quelle persone che non avrebbero mai dovuto esser dietro le sbarre. Spetta ai funzionari  iraniani, tra cui alti ufficiali del carcere, e alla magistratura, fare luce su quanto accaduto a Beheshti e punire i responsabili”.

Ann Harrison, vicedirettrice del Programma di Amnesty International per il Medio Oriente e Africa del Nord denuncia: I timori che Sattar Beheshti sia morto a causa delle torture in un centro di detenzione iraniano, a quanto pare dopo aver presentato una denuncia di tortura, sono molto plausibili, considerati i dati dell’Iran quando si tratta di decessi in carcere…Le autorità iraniane devono immediatamente effettuare un’indagine indipendente sulla sua morte, incluso se la tortura abbia avuto un ruolo in essa. Chiunque sia responsabile di abusi deve essere portato davanti alla giustizia in procedimenti conformi agli standard internazionali di un processo equo, senza ricorrere alla pena di morte”.

La morte di Beheshti ha di nuovo portato alla ribalta le condizioni di detenzione cui da tempo sarebbero sottoposti nelle carceri iraniane blogger, attivisti, giornalisti, scrittori, avvocati, artisti e a cui molti di loro stanno rispondendo con lo sciopero della fame. Molti sono già noti, altri meno ma tutti hanno bisogno di aiuto e per quanto ci si possa sentire impotenti di fronte a queste tragedie, esiste una strada per farli sentire meno soli, forse l’unica: denunciare. Il sociologo iraniano Ali Shariati, diceva:“Se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti” (Shirin Ebadi “La gabbia d’oro”, 2003). Nel suo blog, e in particolare in uno dei suoi ultimi post, Sattar Beheshti forse lo ha fatto, o meglio, ha tentato di farlo.

Katia Cerratti