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Tortura: un tema diffuso nella vita degli arabi, molto più raro nella cultura politica

Mentre la politica continua a coprire lo scandalo della tortura nelle carceri, il numero di intellettuali arabi che si interessano al problema è in aumento, soprattutto tra i siriani

di Hazem Saghiya, Asharq alAwsat, (03/06/2020) Traduzione e sintesi di Laura Cecchin

Alla fine degli anni ’70, il compianto intellettuale siriano Yasin Al-Hafiz scrisse parole allora come oggi sconcertanti: «Con il colonialismo, per la prima volta nella storia araba moderna, i singoli hanno potuto, da un lato, combattere il potere costituito senza essere uccisi o costretti ad arrendersi, e, dall’altro, incassare colpi senza fiatare. Si può quindi affermare che proprio l’esperienza coloniale abbia involontariamente avviato il processo di politicizzazione della società araba, priva di una tradizione politica pregressa, e che la decolonizzazione, seguita a sua volta dall’autoritarismo orientale moderno, abbia segnato l’inizio del processo opposto di epurazione dei residui (la democrazia coloniale) e di depoliticizzazione della società, o abbandono forzato della politica».

Parlando, poi, di come Beirut avesse influito su di lui, poco dopo la sua scarcerazione in Siria, Al-Hafiz disse: «Ho iniziato a dormire sonni tranquilli, senza essere svegliato dall’incubo delle visite notturne. Dal Libano e soltanto in Libano, i miei libri venivano stampati e i miei articoli pubblicati. Per di più, è stato grazie a questo Paese che mi sono fortemente legato alla cultura moderna. Ho imparato a trattare mia moglie e i miei figli in modo sempre meno orientale».

Le idee di Al-Hafiz, rispetto al comune pensiero politico del Medio Oriente, sono uniche nel loro genere. Le sue priorità, infatti, erano diverse da quelle degli altri. Se è vero che anche Al-Hafiz credeva negli ideali di unità araba, lotta all’imperialismo, liberazione della Palestina, edificazione del socialismo, li valutava però in base alla loro distanza dal principio della libertà. Adottando questo metro di misura, egli ha saputo, con inaudito coraggio, stilare la lista dei pro del colonialismo e affermare, con altrettanta onestà, la superiorità del modello libanese del tempo rispetto al modello regionale del nazionalismo militare.

Ciò che interessava a Al-Hafiz erano la violenza implicita nella depoliticizzazione e quella esplicita e osservabile che ne deriva e a cui si assiste nelle prigioni di Paesi i cui governi non fanno altro che ripetere “Palestina libera” e altri slogan della serie. Ancora più importante per Al-Hafiz era realizzare l’unità politica e abbandonare la violenza e la tortura.

Al contrario, il pensiero comune corrente ha di fatto marginalizzato questioni come la politica, la libertà, la violenza e la tortura, facendo finta di non vederle, dal momento che gli attori coinvolti sono gli stessi che parlano di liberazione della Palestina, edificazione del socialismo, lotta all’imperialismo, senza necessariamente fare ciò che dicono o esserne addirittura interessati.

Perciò, nonostante gli atti di violenza e tortura facciano un gran rumore nella vita degli arabi, la letteratura politica ne è estremamente povera. Certo, tra i sopravvissuti alle prigioni c’è chi ha scritto opere eloquenti, a volte artistiche, sulla propria esperienza, e sì, alcuni autori si sono occupati di tortura, anche in riferimento a epoche passate. Tuttavia, si fatica a trovare testi che trattino l’argomento in modo sistematico o spieghino il fenomeno in relazione ai discorsi ideologici dominanti, per i quali le questioni “sacre” sono altre.

Fu forse lo scrittore iracheno Kanan Makiya il primo a violare la norma, con il suo libro “La Repubblica della paura”, al tempo di Saddam Hussein. Sotto lo pseudonimo di Samir Al-Khalil, Makiya scriveva che il problema principale del regime di Saddam stava nella sua essenza violenta, negli iracheni martoriati nella mente e nel corpo con ogni sorta di mezzo e fino agli estremi del dolore. Per lui, le questioni dell’imperialismo e del sionismo venivano dopo. Allora, Makiya – Al-Khalil venne coperto di insulti perché parlava “come gli occidentali”. Diffamarlo diventò in seguito il passatempo preferito degli intellettuali arabi, poiché, tra le altre cose, appoggiò gli Usa, ritenendo che rovesciare il regime della violenza di Baghdad contasse di più del fatto che a farlo fossero gli americani.

In questi ultimi anni, sempre più intellettuali sono portati a rivedere le loro priorità. Lo confermano quei siriani che hanno conosciuto il peggio della violenza sulla loro pelle, mentre con le loro orecchie hanno sentito il peggio delle chiacchiere sulle classiche “questioni cruciali”. Il caso della Siria è stato in tal senso rivelatorio.

Tra gli autori più eminenti vi è Yassin al-Haj Saleh, 16 anni di prigionia, che ha scritto recentemente: «In Siria chi si interessa al tema delle carceri è quasi sempre qualcuno che ha subito torture in prima persona. Qui la tortura è strutturale, sistematica, non un fatto sporadico. Questo significa che anche l’umiliazione è strutturale e sistematica. Tratto saliente dell’era Al-Asad, dopo la tortura, sono i lunghissimi tempi di prigionia che per molti siriani superano l’intera durata del governo nazista (…) L’esperienza degli anni passati dimostra che la Siria di al-Asad è uno Stato di tortura e che non esiste una Siria senza tortura se non c’è una Siria senza al-Asad».

Hazem Saghiya è un giornalista, critico e commentatore politico libanese.

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