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M-R-S & M-R-Ḍ, nell’esercizio non mi ammalerò

ali ferzat
(Ali Ferzat)

“MALATTIA i giorni / passano / senza che io / li viva”. Se fossero versi di un poeta arabo, il titolo sarebbe maraḍ, malattia. Invece sono i versi di una ragazza che nel 1967 aveva 16 anni. Vincenzina, mia madre. Ciò che ha cambiato la mia percezione della malattia si trova in una pagina del vocabolario di arabo. Il verbo mariḍa, ammalarsi, è poco più sotto del verbo mārasa, esercitarsi. Averli letti così vicini l’uno all’altro ha completamente stravolto il mio modo di pensare. C’è qualcosa che la malattia non ha tolto a mia madre: la voce. Ogni tendine e intenzione sono messi in moto dai suoi sforzi per emetterla, per esprimersi con piglio convinto. Ho letto con occhi particolari, perciò, Giorno di silenzio a Tangeri, dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, quando il narratore dice del protagonista che le parole “lo aiutano a sopportarsi. Finché riesce a parlare, finché può organizzare una violenza armata con parole dure, incisive, senza possibilità di replica, lui sa di essere vivo, e che la sua malattia non è altro che un temporale passeggero, un’ombra fastidiosa, uno scherzo di cattivo gusto”.

mariḍa e mārasa sono per me elementi di chimica che danno vita a reazioni inaspettate, a esplosioni dell’essere. mārasa è lì affacciato sopra mariḍa per dirci che l’esercizio è, deve essere, una difesa immunitaria. “Non diverso dall’acqua che se non scorre si ammala,” scriveva quel signore dolcissimo di nome Mario Luzi (1914 – 2005), uno dei più grandi poeti italiani del ‘900, uno dei miei preferiti. mārasa sembra incarnarsi nel suo pensiero e incitarci come se dicesse: scorrete nel flusso dell’esercizio, acque umane, e non vi ammalerete.

mariḍa non è per forza una radice angosciante, e c’è chi si è armato di talento e volontà per farcene cogliere un lato meno duro. Qualche settimana fa infatti ho incontrato la sua radice usata per tradurre un poeta a noi molto vicino. Sulle prime credevo fosse un poeta russo, leggendo le ultime lettere del cognome in arabo che finiva in -ski. Poi leggendo bene ho capito: era Aldo Palazzeschi (1885 – 1974). La sua poesia La Fontana Malata è stata tradotta in arabo nientemeno che dallo scrittore iracheno contemporaneo Abdel Kader Al-Janabi per Elaph col titolo an-Nāfūra al-marīda. Ai più potrà sembrare un componimento facile, forse, non so, eppure con quelle onomatopee, con quello stile particolare di Palazzeschi… Si coglie quanto dev’essersi impegnato e divertito il nostro Al-Janabi! Tanto bravo che in uno dei commenti all’articolo di Elaph l’utente Jawad Ghoulum gli ha scritto: “Mi sembra di sentire l’acqua e i suoi spruzzi sulla faccia grazie alla tua traduzione, Al-Kader al-qadir (gioco di parole col nome del poeta, al-qāder, e l’aggettivo al-qadīr ‘competente, potente’).

Nella poesia Palazzeschi ascolta una fontana colpita dalla tisi, che tossisce e tossisce e fa penare il poeta. Ma quegli scrosci di tosse (diciamo così), quindi quella malattia, maraḍ, divengono un modo per spingere ad ascoltare la realtà col proprio udito interiore, che può trasformare l’acqua incessante anche in dei colpi di tosse. Non è neppure la prima volta, ho scoperto con piacere, che Al-Janabi traduce in arabo questo scrittore italiano così creativo che lo stesso Filippo Tommaso Marinetti fu colpito dai suoi versi. Come mārasa mi ha fatto vedere mariḍa con uno sguardo diverso, anche Al-Janabi me ne ha dato l’opportunità, attraverso una breve poesia italiana che se non avessi letto in arabo forse non avrei mai conosciuto nella mia lingua materna. Materna, come la voce di Vincenzina. La sua voce tanto caparbia che esercitandosi non si è ammalata. Me l’ha svelato la lingua araba.

Claudia Avolio