Per le donne arabe il vero progresso è la parità di diritti, non l’inverno islamico
Carlotta Caldonazzo
Dopo aver dato il loro contributo alle rivolte nei diversi paesi arabi, molte donne, di fronte all’ascesa di movimenti e partiti che fanno riferimento alla legge islamica (sharia), temono che l’abbattimento dei vecchi regimi sia seguito da un’involuzione sul terreno dei diritti civili e dell’uguaglianza di genere. Dalle pagine di blog e reti sociali molte voci si levano in difesa di un vero progresso e della giustizia sociale, ma soprattutto contro quello che ha tutta l’aria di un peggioramento nella condizione femminile.
Un po’ come la definizione che dell’illuminismo aveva dato il filosofo tedesco Immanuel Kant, la vera rivolta consiste in un cambiamento nella mentalità collettiva nel senso della liberazione delle coscienze e dell’uso della ragione. Un passo avanti in termini di consapevolezza a livello soggettivo e inter-soggettivo. In questa fase, successiva alla defenestrazione di regimi autoritari laici, sono in gran parte le donne, da sole o associate in gruppi più o meno organizzati, a mettere in guardia dall’affidare le redini dei rispettivi paesi a movimenti islamici che rischiano di far regredire la società. Un timore fondato, visto che a pagare il prezzo di un’eventuale instaurazione della sharia sarebbero proprio le donne, a cominciare dalla legalizzazione della poligamia (attualmente vietata in Tunisia) o dall’imposizione di un determinato abbigliamento.
Certamente le molestie sessuali che la corrispondente di France 24 Sonia Dridi ha subito la scorsa settimana da un gruppo di giovani a Piazza Tahrir, al Cairo, oppure i ripetuti allarmi del Centro egiziano per i diritti della donna (due terzi delle donne egiziane subiscono violenze sessuali ma solo il 5% le denuncia) non sono rassicuranti. Come il discorso pronunciato giovedì scorso dal mufti saudita Abdulaziz Al al-Sheikh sull’illegittimità delle pretese di democrazia secondo la legge islamica e la mancanza di impegno in Egitto per debellare l’usanza delle mutilazioni genitali femminili. Inoltre in Tunisia, dove la costituzione di Habib Bourghiba prevedeva l’uguaglianza di genere a livello sociale e politico, il nuovo progetto costituzionale prevede di relegarla a un ruolo complementare. In Algeria invece pesa come un macigno la memoria del massacro di Hassi Massoud del 13 luglio 2001: dei circa 300 fanatici che assaltarono il quartiere residenziale delle lavoratrici solo 29 hanno subito un processo e solo tre hanno scontato la loro pena (per gli altri condanne in contumacia o addirittura assoluzione).
Il rischio è che si crei una spaccatura all’interno della società tra chi intende perseguire fino in fondo gli obiettivi delle proteste che hanno abbattuto regimi decennali e chi invece preferisce rinunciare allo stato di diritto, alla democrazia e alla giustizia sociale in nome di un concetto di legge islamica costruito ad hoc dai nuovi regimi per prevenire rivendicazioni libertarie. Una lacerazione che impedirebbe la costruzione di una società civile, dunque la creazione di un antidoto a future oppressioni e regimi. Inoltre se dovesse prevalere l’esigenza di un ritorno alla tradizione (che altro non è se non una strumentalizzazione del bisogno di tornare alla normalità dopo la caduta dei vecchi regimi) le donne non sarebbero le uniche vittime, visto che in molti paesi arabi vivono minoranze confessionali potenzialmente bersaglio di gruppi di fanatici appartenenti alla religione o alla scuola religiosa maggioritarie. Per citare alcuni esempi, basti pensare alla situazione siriana, ai coopti egiziani, agli sciiti sauditi, agli sciiti e agli ebrei yemeniti, agli sciiti in Bahrein (che in realtà costituiscono la maggioranza della popolazione, ma subiscono gli arbitri della monarchia sunnita sostenuta dal Consiglio di Cooperazione del Golfo).
In realtà non è la sharia in sé a far paura a molte donne o alle minoranze confessionali, ma la sua interpretazione in senso conservatrice. L’imam di una moschea di Oklahoma City, Imad Inshasi è proprio la legge islamica a garantire alla donna libertà di scelta del coniuge, dell’istruzione, del lavoro e persino la parità di diritti rispetto agli uomini. “Se Dio ha applicato il principio di uguaglianza al giorno del giudizio nella ricompensa e nella punizione, perché le donne non dovrebbero avere gli stessi diritti degli uomini nei diritti?”, ha spiegato, “purtroppo oggi si dà priorità alle usanze, alle tradizioni e alla società considerata nell’ottica dell’applicazione della religione, mentre la religione stessa dipende dall’interpretazione dei giuristi e dei legislatori”. Questi, secondo Inshasi “forniscono interpretazioni diverse, a seconda della loro posizione e delle usanze delle società, dove a prevalere è la mentalità maschilista”.
Un circolo vizioso dunque. Dopo settimane o mesi di proteste in molti vorrebbero tranquillità e la trovano nella tradizione non tutti scelgono di impegnarsi per realizzare un cambiamento sostanziale (il cambio di regime rischia di essere un mutamento di forma più che di sostanza). Il bisogno di “normalità” rischia di tradursi in un anelito al recupero delle tradizioni, che in una società maschilista significa perpetuare lo stereotipo della posizione subalterna della donna. Gli esperti di religione e i movimenti legati all’islam politico, lo sanno bene (spesso l’islam politico è pura propaganda) e impugnando l’istanza di “normalità” si sono affermati sui movimenti laici e di impostazione sociale.
La questione di genere, come quella della giustizia sociale, può essere risolta solo a prezzo di una ridiscussione sistematica e metodica dei cardini delle società costituite, non solo nei paesi musulmani o islamici. L’emancipazione della donna è l’unica condizione dell’emancipazione dell’uomo perché, il terreno fertile per la fondazione di un’autentica consapevolezza individuale e relazionale. Simone de Beauvoir scriveva: “una donna libera è l’assoluto contrario di una donna leggera”. Emancipazione significa responsabilità, dunque libertà. Ma l’individuo libero fa paura a regimi vecchi e nuovi.
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