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Perché l’Arabia Saudita provoca l’Iran

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Di Agnès Rotivel. La Croix (04/01/2016). Traduzione e sintesi di Chiara Cartia.

L’Arabia Saudita ha interrotto le sue relazioni diplomatiche con l’Iran dopo che la sua ambasciata a Teheran e il suo consolato nella città iraniana di Machhad sono stati parzialmente distrutti in seguito all’esecuzione, sabato 2 gennaio, dello sceicco sciita Nimr al-Nimr.

Come prima reazione, il 4 gennaio, Teheran ha accusato Riyad di provare ad aggravare le tensioni nella regione. Queste esistono già da tempo. Storicamente, i due Paesi hanno già interrotto le loro relazioni dal 1987 al 1991 dopo degli scontri sanguinosi avvenuti tra pellegrini iraniani e forze saudite durante il hajj [pellegrinaggio, ndr] alla Mecca, nel 1987. Alla fine della presidenza di Mahmoud Ahmadinejad, le tensioni erano al loro apice, ricorda il ricercatore all’Istituto delle relazioni internazionali e strategiche, Thierry Coville.

Dopo l’arrivo al potere del presidente Hassan Rohani nel 2013, Teheran ha cercato di smussare gli angoli con le monarchie sunnite del Golfo, insistendo sull’argomento che le relazioni con questi Paesi erano una priorità anche rispetto al nucleare.

In queste condizioni, l’esecuzione di Nimr al-Nimr è chiaramente una “provocazione”, secondo Thierry Coville, che va ad aumentare la tensione che era già salita a settembre, dopo che 463 pellegrini iraniani sono morti alla Mecca travolti dalla folla.

Il contenzioso tra i due Paesi è anche economico. Teheran rimprovera a Riyad, primo esportatore mondiale di petrolio, di aver giocato un ruolo primordiale nella diminuzione del prezzo del greggio, mantenendo la propria produzione a un livello molto alto.

Già in uno dei telegrammi di Wikileaks pubblicati nel 2010, il re Abdullah chiedeva a Washington di “attaccare e distruggere il programma nucleare dell’Iran”. Preoccupati che l’eliminazione delle sanzioni internazionali contro l’Iran dopo la firma dell’accordo nucleare desse a Teheran più mezzi per sostenere dei gruppi sciiti e pro-iraniani, i sauditi hanno sviluppato una rete di influenze finanziata dai petrodollari. Inoltre, hanno accordato finanziamenti a dei predicatori all’estero per costruire moschee, scuole e sostenere campagne per “contrastare dirigenti e media all’estero che potessero opporsi al programma del regno”.

L’accrescimento di potere dell’Iran genera una vera e propria paranoia tra i dirigenti sauditi che vogliono porsi come i “protettori dei sunniti”, cosa che in realtà non sono, perché l’islam wahhabita rigorista promosso dalla famiglia Al-Saud non è maggioritario nella galassia sunnita, anzi. Se Riyad, grazie alle sue risorse finanziarie, riesce a fare incetta di simpatizzanti, non è sicuro che altri Paesi sunniti vogliano sacrificarsi per una monarchia piuttosto criticata dalla gente.

Tuttavia questa crisi fa il gioco dei duri del regime iraniano, come i Guardiani della Rivoluzione, che predicono una “vendetta”. A poco più di un mese dallo scrutinio legislativo in Iran, il presidente Rohani avrebbe fato volentieri a meno di questo “aiutino” dato ai suoi rivali.

C’è un rischio di rivolta da parte delle minoranze sciite e sunnite in Arabia Saudita e in Iran? In Iran non esistono statistiche al riguardo, ma i sunniti dovrebbero essere tra l’8 e il 9% della popolazione, ripartiti principalmente nella provincia povera del Sistan-Balouchistan, nel sud est del Paese. Sono vittime di discriminazioni religiose, politiche ed economiche, il che però non li porterebbe a sollevarsi contro Teheran. In Arabia Saudita gli sciiti sono circa 2 milioni, nelle zone petrolifere dell’est del Paese, non sono sotto l’influenza dell’Iran, ma subiscono le discriminazioni del potere sunnita e degli attacchi di Daesh (ISIS).

Questa crisi tra Iran e Arabia Saudita arriva a un momento sbagliato, in cui gli occidentali cercano di rilanciare i negoziati tra le diverse fazioni per mettere un termine al conflitto in Siria. Di certo la crisi tra le due potenze non aiuterà l’avanzamento delle discussioni. Al-Qaeda e Daesh non sono delle priorità per l’Arabia Saudita, che in questo conflitto spera semplicemente che il regime di Assad crolli, non essendo minacciata da esso né coinvolta dai flussi di migranti.

L’esecuzione delle 47 persone, tra cui lo sceicco Nimr al-Nimr, mirata a provocare una reazione del vecchio nemico sciita, potrebbe essere una forma di diversificazione per far dimenticare una guerra di sottofondo rovinosa e inefficace in Yemen. Ma anche una caduta vertiginosa dei redditi petroliferi che potrebbe portare, se continua, alla fine delle sovvenzioni e a uno scontento sociale. Senza contare le rivalità in seno alla famiglia Al-Saud.

Agnès Rotivel è una reporter per il giornale La Croix.

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