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Medfilm Festival: storie di migrazioni

Shi ghadi wa shi jay. Cose che vanno e cose che vengono. Panta rei. Tutto scorre. Realtà in perenne movimento. Acqua. Acqua che purifica, acqua che devasta, che monda, rinfresca, riflette, che disseta e benedice. Acqua che da la vita. E la toglie.

L’acqua è un elemento centrale nel film Shi Ghadi Shi Jay (Boiling Dreams) del regista marocchino Hakim Belabbes, presentato alla XVIII edizione del MedFilm Festival, in corso a Roma dal 19 al 28 ottobre.  “Tutto dipende dall’acqua” dice un’anziana signora marocchina, guardando un arido rubinetto che non rifornisce più gli abitanti del luogo con il suo prezioso bene. “Senza acqua siamo tagliati fuori”. L’acqua è anche quella del mare, che può portare a una nuova vita o dividere e distruggere quello che già abbiamo.

La storia ruota intorno alle vicende di Ahmed, che parte per cercare di attraversare il mar Mediterraneo e tentare la fortuna in Europa, e sua moglie che rimane nel piccolo villaggio marocchino in cui la coppia vive con i loro due figli. Ciò che vuole rappresentare questo discreto film marocchino, a tratti onirico, non sono, quindi, solo le motivazioni e la disperazione di chi emigra, costretto a lasciarsi alle spalle tutto, persino la propria identità, nascosta in una scatola di latta sottoterra, ma anche e soprattutto il dramma di chi resta. Largo spazio viene, infatti, dato alla figura della moglie, alla sua perenne attesa di una telefonata o di una brutta notizia, ai suoi sogni e ai suoi incubi, così prepotenti e verosimili da rendere impossibile distinguere la realtà dall’immaginazione.

Punto di vista femminile è anche quello adottato nel documentario turco Ich Liebe Dich (I love you) di Emine Emel Balci, il primo ad essere proiettato all’interno della sezione Doc Open Eyes del  MedFilm Festival. Il film racconta la storia di un gruppo di donne turche che studiano tedesco con lo scopo di superare l’esame obbligatorio per entrare in Germania e poter, così, raggiungere i mariti emigrati. Purtroppo, il regista rimane ad un livello superficiale nella rappresentazione della situazione vissuta da queste donne, soffermandosi sulla loro paura di non riuscire a superare l’esame e non esplorando la psicologia dei personaggi, la loro storia, la solitudine e la loro condizione di donne in perenne attesa di un cambiamento che potrebbe sconvolgere le loro vite. Il risultato è un documentario ripetitivo e non troppo accattivante.

Ad ogni modo, ciò che resta è la disperazione ma anche il sogno che spinge allo spostamento, alla migrazione. Rimane l’idea delle piccole e grandi difficoltà che bisogna superare per poter raggiungere i propri obiettivi e migliorare la propria vita. Infine, resta l’immagine del Mediterraneo visto da Tangeri. Un tratto di mare così breve e un lembo di terra così vicino, la Spagna, che potrebbero rappresentare l’unione, la prossimità, mentre, per molti, costituiscono solo un ostacolo insormontabile e un mondo altro. Bisogna davvero essere un eroe per attraversare questo mare di divieti e pregiudizi. “Mio padre è Ercole”, dice il figlio di Ahmed.

Viviana Schiavo