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La questione della razza in Marocco

Di Mohammad Benaziz. Al-Monitor (17/01/2014). Traduzione e sintesi di Angela Ilaria Antoniello.

Nell’estate 2013, i giornali marocchini pubblicarono la foto di un cartello affisso sul muro di un complesso residenziale a Casablanca che riportava la scritta: “È severamente vietato affittare agli africani e alle persone non sposate”. La dichiarazione scatenò un’ondata di disapprovazione e rivelò un ben consolidato comportamento razzista del quale il palazzo sopra citato non rappresentava che un microcosmo.

Protagonista dell’esempio più recente di razzismo è stato il parlamentare marocchino dei Fratelli Musulmani Al-Muqri Abu Zaid, il quale ha fatto riferimento alle tribù di Sous stabilite ad Agadir con l’espressione “ben noti commercianti di una razza inferiore”. Anche questa volta la storia ha scatenato un’ondata di rabbia. Abu Zaid ha negato di essere razzista e ha posto le sue scuse. La si potrebbe finire qui, eppure non è così, non si può. Esistono battute sulla paura di avere un bambino nero, sull’odore dei neri e sulle donne che usano una crema a buon mercato per schiarire la pelle del viso. C’è il testo di una canzone che dice qualcosa di simile: “Metti l’henné da parte, tu sei bianco, ed è meglio”. Discorsi sulla razza e sul colore della pelle sono molto comuni negli stadi quando giocano squadre che vengono da Casablanca, Agadir e le zone rurali  e il nazionalismo si riduce a ripugnante regionalismo.

Una mattina del 2001, a Tata, un insegnante espulse una studentessa e ordinò alla compagna di classe, nera, di seguirla. E così fu: la ragazza nera la seguì portando entrambi gli zainetti. Da insegnante chiesi ai miei studenti di fare delle ricerche. Si scoprì che la studentessa nera era la figlia di uno schiavo nero il cui padrone era il padre della ragazza espulsa. Ora, teoreticamente la proprietà dello schiavo è qualcosa che non esiste più dalla metà del ventesimo secolo.

Esistono diverse etichette per i neri, come asemkan, asuqin, al-harratin e al-khummasin. La prima espressione si riferisce al colore di un certo tipo di pesce. La seconda deriva dalla parola suq, riferito al mercato in cui vengono acquistati e venduti. La terza etichetta riguarda il coltivare la terra, mentre la quarta deriva da coltivare la terra in cambio di mantenere un quinto del raccolto. Quanto a quest’ultima etichetta, i marocchini sono molto sensibili, in quanto fa riferimento allo status sociale più basso.

Nel Nord così come nel Sud del Marocco, molte famiglie non vogliono che una loro figlia sposi un uomo di colore. A Tata, inoltre, è stata condotta una ricerca che testimonia l’esistenza di cimiteri, moschee e addirittura interi paesi  destinati unicamente ai bianchi o ai neri. Nell’introduzione a questa ricerca, Ibrahim Aybork dice di averla effettuata per motivi personali, essendo un uomo dalla pelle nera, cosa di cui però non si vergogna. Aybork sostiene che questa situazione provochi uno squilibrio sociale e generi tensione politica, ostacolando, inoltre, i programmi di sviluppo per Tata.

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