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La censura mediatica

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Di Ayman al-Quwaifli. Al-Araby al-Jadeed (14/01/2015). Traduzione e sintesi di Maddalena Goi.

Soprattutto nei Paesi arabi, una funzione fondamentale dei sistemi mediatici governativi è la censura, intesa a tutti i livelli. Si tratta di una cattiva informazione che si ottiene mediante una violazione delle regole del lavoro giornalistico o l’offerta, a osservatori minori, di vedute ristrette della realtà o addirittura manipolate. Questa mancanza di informazioni è esattamente il motivo per cui esistono i ministeri e gli organi superiori di controllo dei media. Quando gli strumenti di informazione governativa oscurano e vietano uno “sponsor” o una “fonte di informazione” è proprio al fine di schivare quella verità.

Ma la censura di cui stiamo parlando qui si allontana dalle formule grezze e dirette. Si allontana dalla censura dei siti web o dal vietare certi tipi di divulgazioni, dall’impedire a un vignettista di pubblicare o a uno scrittore di scrivere e si allontana anche dal controllo dei maggiori spazi d’espressione abbreviata come Twitter o Whatsapp.

La censura mediatica, in senso largo, è intesa come l’espansione delle istituzioni dei media ufficiali con i loro dieci canali TV, venti giornali, gli innumerevoli siti internet, le stampe, le stazioni radio e le piattaforme elettroniche. Tutti trasmettono con lo scopo di censurare invece che con lo scopo di informare. Nel senso che il fine implicito dei mezzi di informazione è diventato il dominio del discorso ufficiale nello spazio mediatico, svuotandolo da possibili discorsi concorrenziali e servendo tutti gli spot e le reti locali, prima che questi vengano occupati da un’altra voce che propone un discorso diverso da quello tradizionale.

Neanche i media arabi si distaccano molto da questa performance. Secondo la solita divisione, ufficiale e commerciale, l’obiettivo degli apparati mediatici nei paesi arabi è quello di non lasciare nessuno spazio aperto al dibattito. Soprattutto ad investitori, imprenditori, giovani e giornalisti professionisti che potrebbero sbilanciarsi in proposte innovative per forma e contenuti mediatici.

Nei Paesi arabi, nuove produzioni mediatiche hanno bisogno di una licenza politica per essere messe in pratica, mentre i progetti più piccoli riescono ad ottenerla sottoponendosi direttamente a censura mediante l’adozione volontaria dei discorsi ufficiali. Ma ogni volta che il progetto si ingrandisce, tale da diventare capace di competere con gli stessi media governativi, si aggiungono una serie di nuove condizioni per ottenere la licenza politica. E, nel caso di inaugurazioni di giornali e nuovi canali televisivi, si arriva a richiedere requisiti impossibili da soddisfare se non per un limitato numero di persone in tutto il Paese. In questo caso, il proprietario del progetto mediatico dev’essere una persona facente parte dell’élite politico-economica con visioni e interessi in linea con i media di Stato. È ammessa solo qualche differenza formale nei dettagli tecnici che i giornalisti più esperti cercano di camuffare per farle sembrare vere e proprie differenze, dietro le quali, in realtà, si nascondono accordi che obbligano a rispettare il contenuto ufficiale.

Oltretutto, nonostante critiche e derisioni tra giornalisti e colleghi siano all’ordine del giorno, tutti, alla fine, trasmettono lo stesso discorso politico e sociale, con titoli simili. La scena mediatica, dal lancio della TV via cavo, si è sempre basata su un falso dualismo: i media ufficiali e quelli commerciali, ma entrambi si sono riuniti insieme per rappresentare un’unica forza mediatica. Così i cittadini arabi continuano a rimanere incapaci di accedere a notizie e a fonti autentiche e ragionevoli.

I mezzi di informazione operano realizzando una nuvola di illusioni, pregiudizi e deliri che separano i cittadini dalla verità. L’unico caso che provoca un senso di disagio all’interno del grande impero mediatico è la sua incapacità di proporre lo stesso tipo di discorso mediatico anche all’estero in maniera coerente. L’impero rivela, al momento, un problema fondamentale in quanto è costruito per dominare, non per convincere o far capire. Ma il disagio viene risolto rapidamente: alla fine chi dice che i cittadini hanno bisogno di essere convinti?

Ayman al-Quwaifli è uno scrittore e ricercatore in sociologia saudita.

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