Dopo il forte slancio di speranza dato dalla rivoluzione del gennaio 2011, oggi la situazione della libertà di espressione e di stampa in Egitto versano in una condizione critica. Ciò non toglie che ci siano ancora tanti giornalisti, soprattutto giovani, che cercano di farsi largo tra gli strumenti di repressione del regime per garantire l’indipendenza dell’informazione nel paese.
Una di loro è Lina Attalah, co-fondatrice e direttrice del sito egiziano Mada Masr, che ci ha parlato del suo progetto e della situazione della stampa in Egitto in occasione del Festival di Internazionale a Ferrara di quest’anno.
Dopo l’esperienza all’Egypt Independent, insieme a un gruppo di colleghi giornalisti avete deciso di fondare Mada Masr. Puoi raccontarci meglio come e perché è nato?
Eravamo un gruppo di giornalisti che lavoravano insieme all’Egypt Independent, che ha dovuto chiudere perché il management della compagnia proprietaria della testata aveva problemi economici e, inoltre, c’era una certa tensione politica con la redazione, quindi ha licenziato tutto lo staff. All’epoca non riuscivamo a trovare nessun altro posto dove praticare la nostra professione in modo indipendente, quindi abbiamo dovuto creare un’organizzazione tutta nostra ed è così che abbiamo dato vita a Mada Masr.
Parlando di libertà e indipendenza della stampa in Egitto, qual’è la situazione attuale? Pensi sia peggiorata dopo la rivoluzione?
È molto difficile, credo che stiamo vivendo un periodo di restrizioni senza precedenti, in termini di possibilità di riferire le notizie, scriverle e reperire le informazioni. Affrontiamo sfide come non se ne vedevano da vent’anni, persino nell’era Mubarak, un’epoca in cui le restrizioni sulla libertà di stampa erano molto rigide. È stato molto duro, ma siamo ancora capaci di esercitare la nostra professione ed è molto importante continuare ad accaparrarci questo spazio che abbiamo creato e forgiato per noi stessi. Di certo, dopo la rivoluzione i tempi sono cambiati e sono più complessi, perché subito dopo la rivoluzione le speranze erano grandi, quindi è difficile scendere così tanto a compromessi ed è difficile accontentarsi di meno adesso.
Parlando del caso Regeni, che ha avuto un’eco enorme non solo in Italia, ma in tutta Europa, come si sono comportati i media egiziani? Come hanno affrontato la notizia e il problema?
Sicuramente il caso è stato seguito dai media, tanto da quelli mainstream quanto da quelli indipendenti e privati. Molti dei media hanno scelto di mettere in dubbio il caso Regeni e frenare gli interrogativi su come sia stato torturato ed ucciso tanto brutalmente. In realtà ci sono state varie narrative: da una parte c’era chi spargeva la voce che Regeni fosse una spia, dall’altra c’era chi faceva il discorso “cosa ci importa della morte di un italiano a caso, se nel frattempo molte altre persone muoiono”. Ad ogni modo, ci sono state anche narrative che di base sono state avanzate per poter riempire il vuoto creato da domande sul come fosse stato ucciso e su chi aveva interesse a ucciderlo in questa maniera atroce. Quindi è così che la storia è stata raccontata. L’altro giorno, l’avvocato della famiglia Regeni [Alessandra Ballerini, intervenuta in occasione del panel intitolato “Tutta la verità – Repressione, sparizioni forzate e torture. L’Egitto a cinque anni dalla primavera araba”, ndr] ha menzionato come si siano susseguite narrative fuorvianti sulle condizioni della sua morte, un fattore che indica davvero come si sia tentato di mascherare le circostanze del suo omicidio.