Da poco ho scoperto che kataba, nella sua forma passiva kutiba (“essere scritto”), si può usare anche per intendere che si è destinati a qualcosa. Un po’ come quando si dice “è scritto nel destino che…”. Non ho fatto quasi in tempo a impararlo – ed è questo che succede con le parole nuove, appena ne imparate una, state pur certi che la rincontrerete presto – che subito ho trovato la parola messa in pratica: “Mektoub”, infatti, è il titolo di un film del regista marocchino Nabil Ayouch, e significa proprio “destinato”.
Chissà, forse anche i versi del poeta libanese Khalil Gibran, messi in musica dalla meravigliosa Fairouz, dal titolo “Dammi il flauto e canta”, provano a rievocare questa doppia valenza del verbo kataba. Nella canzone la sua forma passiva kutiba è usata per dire che “Le persone sono versi di poesie, ma sono versi scritti sull’acqua…”. Mi piace pensare che il verbo kataba custodisca questo messaggio dentro di sé: se il destino è scritto, la sua sostanza, e la superficie su cui è inciso sono mutevoli. Sta a noi cambiare il corso dell’acqua cantato da Gibran. Allora anche le lettere possono mutare forma e ordine: ne basta una diversa, per stravolgere il senso che portava con sé la parola che siamo. E questo, le radici arabe, lo sanno bene…
Claudia Avolio