Dopo una fase di relativa calma, infatti, già da un paio di anni il PKK ha ricominciato a condurre attacchi contro militari turchi nel Sud-Est del Paese (l’area a maggioranza curda) e, ultimamente, ha anche iniziato a effettuare dei rapimenti di persona contro civili. L’ultimo caso, in ordine cronologico, risale proprio a ieri notte, quando sulla strada che conduce da Diyarbakir a Bingol alcuni uomini armati hanno fermato dei veicoli, rapendo tre persone. Addirittura qualche giorno fa ad essere rapito era stato un turista britannico – in seguito rilasciato – fatto abbastanza insolito per le tattiche dell’organizzazione.
Se da un lato, dunque, gli atti di guerriglia del PKK continuano, dall’altro la risposta dello Stato turco e del governo guidato dall’AKP non ha sortito negli ultimi dieci anni gli effetti sperati. Più di una volta Erdogan si è detto disposto ad affrontare la questione – alla base della quale vi è il trattamento discriminatorio e la mancanza del riconoscimenti di determinati diritti ai curdi turchi, che sono circa il 15% della popolazione del Paese – in maniera definitiva, ma la soluzione sembra ancora essere lontana. Le stesse parole del Primo Ministro, che ha dichiarato che più che una questione curda esiste una “questione di terrorismo”, evidenzia come non sia avvenuto quel cambiamento di prospettiva tale da iniziare un sereno dialogo di unità nazionale. In altre parole, anche l’attuale governo continua a percepire la questione curda come una problematica semplicemente di sicurezza e non anche di tipo socio-economico e politico. La questione legata all’attività del PKK mette inoltre a rischio le relazioni con il vicino Iraq, dal momento che da anni le basi del movimento sarebbero nelle montagne del Kurdistan iracheno, al confine con la Turchia.
Stefano Maria Torelli