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Perché abbiamo bisogno di un pellegrinaggio interreligioso?

Di S. Brent Plate. Huffington Post Religion (29/02/2016). traduzione e sintesi di Giusy Regina

Ho da poco finito di percorrere 750 chilometri del Cammino di Santiago. Si tratta di un antico pellegrinaggio, le cui origini vanno ricercate andando indietro nel tempo di più di un millennio. Si tratta infatti di uno dei tre pellegrinaggi cristiani più importanti in Europa medievale, insieme a quelli di Gerusalemme e di Roma. Per varie ragioni politiche e sociali, è caduto in “disuso” in età moderna, tanto che all’inizio del XX secolo quasi nessuno percorreva più “Il Cammino” (come viene spesso chiamato). Dal 1980, tuttavia, i pellegrini hanno ripreso a farlo e i numeri cresciuti esponenzialmente, tanto che adesso sono più di 200.000 le persone che lo intraprendono ogni anno.

Fare questo Cammino è un’esperienza stimolante per molti e lo è stato anche per me: la mia recente passeggiata mi ha indotto infatti a pensare alla necessità di un’esperienza più ampia di pellegrinaggio, allo scopo di favorire il dialogo interreligioso. Neanche a farlo apposta, proprio durante i miei primi giorni di cammino, Papa Francesco ha pubblicato un video messaggio a sostegno del dialogo interreligioso. Un messaggio forte, unito allo sforzo che già numerosi piccoli gruppi hanno fatto duramente in questa direzione. Insomma il dialogo interreligioso è in the air

Ciononostante, penso anche che bisognerebbe andare oltre il solo “dialogo”, che troppo spesso tende a rimanere verbale, per muoversi verso un dialogo che sia fisico e di pratiche interreligiose, tra cui appunto i pellegrinaggi. Non c’è bisogno soltanto di parlare insieme, ma anche di svolgere attività interreligiose insieme, a livello alimentare, di mostre d’arte e così via.

La maggior parte delle grandi tradizioni religiose di tutto il mondo ha una qualche forma di pellegrinaggio integrato nel tessuto della tradizione stessa. I buddisti giapponesi seguono la via del monaco buddista Kukai e viaggiano intorno agli 88 santuari dell’isola di Shikoku. Ogni tre o quattro anni milioni di persone provenienti da tradizione indù viaggiano a piedi per partecipare al Kumbh Mela. Con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, i tre pellegrinaggi del giudaismo non sono più stati praticati globalmente parlando, ma i pellegrinaggi locali sono stati mantenuti ad esempio in Oman e in Ucraina. Per non parlare poi del Hajj alla Mecca che continua ad essere fatto da milioni di musulmani ogni anno.

Nonostante il Cammino di Santiago sia un pellegrinaggio cristiano, e gran parte di esso continui ad essere supervisionato dalla Chiesa Cattolica, migliaia di persone lo fanno per ragioni “spirituali” più ampie, altri ancora per motivi di salute o per semplice turismo. Si potrebbe sostenere quindi che il Cammino sia già un pellegrinaggio interreligioso. Durante il mio viaggio ad esempio ho incontrato coreani buddisti, cattolici messicani e italiani, protestanti scandinavi e coreani e un sacco di altre persone non categorizzatili in questi parametri (agnostici, atei) provenienti da tutto il mondo.

Non vi è certamente nulla di sbagliato in quello che viene chiamato “dialogo interreligioso”, ma personalmente credo che si possano raggiungere risultati ben più soddisfacenti se si camminasse insieme letteralmente, sentendo i dolori alle caviglie e alle ginocchia, zoppicando per le vesciche, essendo sopraffatti dal calore, dalla sete e dalla fame. Così da aiutarsi l’un l’altro lungo la strada, offrendo una benda di scorta all’altro o una ginocchiera, un sorso d’acqua o un’arancia. E ritrovarsi alla fine della giornata seduti insieme a condividere le storie della strada appena percorsa. Parlare diventa così quasi secondario di fronte all’esperienza fisica che lega. La cosa sorprendente di un pellegrinaggio come questo è che non serve chissà quale organizzazione per farlo. Il tutto si incastra organicamente, in modo implicito, lungo il cammino.

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