Di S. Brent Plate. Huffington Post Religion (29/02/2016). traduzione e sintesi di Giusy Regina
Fare questo Cammino è un’esperienza stimolante per molti e lo è stato anche per me: la mia recente passeggiata mi ha indotto infatti a pensare alla necessità di un’esperienza più ampia di pellegrinaggio, allo scopo di favorire il dialogo interreligioso. Neanche a farlo apposta, proprio durante i miei primi giorni di cammino, Papa Francesco ha pubblicato un video messaggio a sostegno del dialogo interreligioso. Un messaggio forte, unito allo sforzo che già numerosi piccoli gruppi hanno fatto duramente in questa direzione. Insomma il dialogo interreligioso è in the air.
Ciononostante, penso anche che bisognerebbe andare oltre il solo “dialogo”, che troppo spesso tende a rimanere verbale, per muoversi verso un dialogo che sia fisico e di pratiche interreligiose, tra cui appunto i pellegrinaggi. Non c’è bisogno soltanto di parlare insieme, ma anche di svolgere attività interreligiose insieme, a livello alimentare, di mostre d’arte e così via.
La maggior parte delle grandi tradizioni religiose di tutto il mondo ha una qualche forma di pellegrinaggio integrato nel tessuto della tradizione stessa. I buddisti giapponesi seguono la via del monaco buddista Kukai e viaggiano intorno agli 88 santuari dell’isola di Shikoku. Ogni tre o quattro anni milioni di persone provenienti da tradizione indù viaggiano a piedi per partecipare al Kumbh Mela. Con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, i tre pellegrinaggi del giudaismo non sono più stati praticati globalmente parlando, ma i pellegrinaggi locali sono stati mantenuti ad esempio in Oman e in Ucraina. Per non parlare poi del Hajj alla Mecca che continua ad essere fatto da milioni di musulmani ogni anno.
Nonostante il Cammino di Santiago sia un pellegrinaggio cristiano, e gran parte di esso continui ad essere supervisionato dalla Chiesa Cattolica, migliaia di persone lo fanno per ragioni “spirituali” più ampie, altri ancora per motivi di salute o per semplice turismo. Si potrebbe sostenere quindi che il Cammino sia già un pellegrinaggio interreligioso. Durante il mio viaggio ad esempio ho incontrato coreani buddisti, cattolici messicani e italiani, protestanti scandinavi e coreani e un sacco di altre persone non categorizzatili in questi parametri (agnostici, atei) provenienti da tutto il mondo.
Non vi è certamente nulla di sbagliato in quello che viene chiamato “dialogo interreligioso”, ma personalmente credo che si possano raggiungere risultati ben più soddisfacenti se si camminasse insieme letteralmente, sentendo i dolori alle caviglie e alle ginocchia, zoppicando per le vesciche, essendo sopraffatti dal calore, dalla sete e dalla fame. Così da aiutarsi l’un l’altro lungo la strada, offrendo una benda di scorta all’altro o una ginocchiera, un sorso d’acqua o un’arancia. E ritrovarsi alla fine della giornata seduti insieme a condividere le storie della strada appena percorsa. Parlare diventa così quasi secondario di fronte all’esperienza fisica che lega. La cosa sorprendente di un pellegrinaggio come questo è che non serve chissà quale organizzazione per farlo. Il tutto si incastra organicamente, in modo implicito, lungo il cammino.